Breve storia della Calabria -parte I^

Condividi

Breve storia della Calabria(1)
di Mario Caligiuri(2)

Presentazione
Mancava fino ad ora una storia che, in una veste agile, offrisse un profilo sintetico ma completo di questa regione dalle antichissime origini. La breve storia della Calabria che qui presentiamo copre questo vuoto e restituisce il ruolo di protagonista che, con fasi alterne, la regione ha avuto nella storia del Sud e più in generale nella storia d'Italia. L'autore, in modo brillante e originale, mette in particolare risalto i momenti più alti di questa storia, e così illustra lo splendore della terra calabrese e i tempi della Magna Grecia (di cui i bronzi di Riace sono solo la testimonianza più spettacolare), con i fiorenti commerci, i maestosi tempi e la grande scuola filosofico-matematica di Pitagora.

Dopo aver tratteggiato il periodo della dominazione romana, Caligiuri pone in evidenza, per grandi linee, l'opera di Federico II nella splendida età medievale con la costruzione, fra l'altro, della rete dei castelli federiciani. Durante il viceregno spagnolo operano in Calabria filosofi della statura di Tommaso Campanella e Bernardino Telesio o pittori come Mattia Preti. Dopo il regno dei Borbone, i calabresi si inseriscono nel processo di unità nazionale, nel corso del quale si prefigurano le contraddizioni d'oggi: la debolezza dello Stato, l'emigrazione, la criminalità organizzata, ma anche la forte volontà di rinascita della società civile calabrese.

 

Sotto il segno del toro

La Calabria nacque sotto il segno del toro. Nel senso che l'immagine preistorica più celebre della regione è proprio un toro: il famoso bos primigenius, che si trova su una parete della grotta del Romito a Papasidero, nel cosentino. Risale al paleolitico, forse poco oltre il 9.000 a.C. Venne scoperta nel 1961 da Paolo Graziosi che la giudicò "una delle più belle ed importanti manifestazioni di tutta l'arte preistorica italiana". La rappresentazione dell'animale forse propiziava la caccia e simboleggiava una divinità che dava di vita. I primi studi e ritrovamenti risalgono solo a poco più di un secolo fa. Da questi si può stabilire, sebbene in modo parziale, che gli insediamenti si svilupparono da nord verso sud. Quello di Castella di S. Pietro a Maida sembra il più antico, poi ce ne sono altri a Tortora, a Praia a Mare, a Scalea, a S. Nicola Arcella e poi, più a meridione, nella piana di S. Eufemia, a Briatico, sul Monte Poro, ad Archi di Reggio Calabria.

Del periodo neolitico, a Favella della Corte, nella Sibaritide, sono stati rinvenuti i resti di un villaggio a capanne. Altri insediamenti coevi sono quelli di Cassano, Amendolara, Curinga e Girifalco. Da alcuni pezzi di ossidiana trovati nelle piane di S. Eufemia e Gioia Tauro si possono dedurre che già da allora c'erano frequenti contatti con le isole Lipari. In questo periodo si hanno insediamenti più sparsi: non si tratta più di grotte isolate bensì di vere e proprie necropoli, che sono il sintomo di forme di civiltà più progredite. Tra queste ricordiamo quella di Torre Galli, nel vibonese, e soprattutto quella di Torre Mordillo, fra i fiumi Esaro e Coscile, dove sono state rinvenute delle laminette auree con iscrizioni orfiche. La Calabria è piena di testimonianze, anche evolute, dell'età del bronzo e del ferro, come si può dedurre dal ritrovamento di oggetti in ambra, oro e argento. Importanti, soprattutto per l'età del ferro, i reperti di Tiriolo, dove c'è un bellissimo Antiquarium.

 

Calabria: dove nasce l'Italia

La Calabria, per la sua posizione geografica nel centro del Mediterraneo, aveva già dall'origine il destino segnato come terra di transito e di incontro. Molte popolazioni vi giunsero da parti diverse e progressivamente si scontrarono, si sovrapposero, si fusero: Siculi e Tirreni, Coni e Itali, Morgeti e Pelasgi, Enotri e Bruzi. Aristotele e Antioco ci narrano che un re leggendario, Italo, avrebbe conquistato la regione e creato insediamenti stabili. Secondo alcuni Italo era re degli Itali, popolo proveniente probabilmente dall'Anatolia, ma secondo altri degli Enotri. Inoltre, per altri ancora, il nome Italo deriverebbe da quel vitulus (vitello) che richiama l'incisione rupestre di Papasidero. E da qui vitulia (terra dei vitelli), per approdare infine al nome di Italia, che poi è diventato quello dell'intera nazione.

Da qui il mito della Calabria come "regione-madre dell'Italia". Ovviamente non tutti sono d'accordo ed Ellanico di Mitilene, seguito da Timeo e da Varrone, contrappone un'altra leggenda: quella di Ercole che avrebbe condotto i vitelli rubati a Gerione nella vicina Sicilia, denominata quindi a sua volta Vitulia. Ma anche se i tempi sono remoti e incertissimi, più che le fonti predomina il mito. Nell'antichità, i territori dell'odierna Calabria vennero diversamente indicati: Ausonia, per le proprie ricchezze; Esperia, perché per i Greci in direzione dell'Occidente; Enotria, terra del vino o da Enotrio re di Arcadia; Italia, dal re Italo o terra dei vitelli; Magna Grecia, perché diventò splendente più della madre patria; Bruzia, perché vi viveva il popolo dei Bruzi e infine, sotto i Bizantini nel VI secolo d.C., Calabria, etimologicamente terra d'ogni bene, che fino ad allora aveva indicato il Salento, la penisola che oggi si stende tra Brindisi ed Otranto.

 

I Bruzi, forti e impossibili

Tra le popolazioni delle origini la più rilevante e la più recente è senz'altro quella dei Bruzi, popolo affine ai Lucani, dei quali erano schiavi. Ma le fonti non concordano perfettamente. Per Strabone essi potevano essere sia coloni che discendenti dei Lucani, mentre per Diodoro Siculo i Bruzi erano «una moltitudine di uomini di varia origine, per la maggior parte servi fuggiaschi». Essi si insediarono nell'interno della parte centrosettentrionale della regione, dopo essersi staccati dai Lucani verso la metà del IV secolo a.C., costituendo una confederazione, con sede a Consentia, l'odierna Cosenza.

Altri villaggi di qualche rilievo erano Aufugum, Argentanum, Bergae, Besidiae, Ocriculum, Lymphaeum. Viste le origini, i Bruzi, abituati agli scontri ed alle violenze, primeggiavano nell'arte della guerra ed ebbero modo di dimostrarlo sia con le altre popolazioni indigene, sulle quali presto prevalsero, che imbattendosi con i Greci d'Occidente, che nel frattempo si erano insediati nella regione dando vita ad una civiltà splendida e irripetibile. Mai coinvolti, se non marginalmente, dalla raffinata civiltà della Magna Grecia, si opposero strenuamente ai Romani.

 

I Greci d'Occidente

Fra l'VIII ed il V secolo a.C. si sviluppò un movimento di colonizzazione dei Greci in tutto il Mediterraneo, fino alle colonne d'Ercole. Bisognava aumentare i commerci e dare sbocco all'incremento demografico. Vista la vicinanza, i primi territori interessati furono quelli dell'Italia meridionale. Per quasi due secoli durò la penetrazione ed il consolidamento dei Greci nella regione. Iniziarono gli Ioni che fondarono, verso il 744 a.C., la città di Reggio sulla sponda dello Stretto e dall'altra parte Zancle, l'odierna Messina. Proseguirono gli Achei con Sibari (710) e quindi subito dopo Crotone (708). Infine i Locresi, intorno al 680 a.C. fondarono Locri, che fu detta Epizefiri per sottolineare che era stata costruita sul promontorio di Zeffirio, che la difendeva dai venti dell'ovest. Non si tratta di luoghi scelti a caso. Infatti, non solo prima della partenza, tramite i famosi ecisti, veniva consultato l'oracolo di Delfi, ma i siti erano tutti individuati in vicinanza di corsi d'acqua, con un'adiacente zona pianeggiante e soprattutto si prestavano all'edificazione di porti.

E mentre Sibari, Crotone e Locri, città poste sulle coste del mar Ionio estendevano autonomamente la loro influenza all'interno sia ad oriente che ad occidente, Reggio guardava verso la Sicilia e controllava il traffico dello Stretto insieme a Zancle. Le città del versante ionico, per commerciare con Etruschi e Campani fondarono delle colonie sul Tirreno. Per passare da un versante all'altro, aprirono delle vie. Preferirono fare questo piuttosto che percorrere le vie del mare, infestate dai pirati ed ostacolate dal monopolio delle città ioniche dello Stretto. Le vie che univano lo Ionio ed il Tirreno erano sostanzialmente tre, anche se i tracciati non possono oggi essere ricostruiti con sufficiente certezza: quella che, seguendo le valli del Coscile e del Crati, congiungeva Sibari con Cetraro; quella che collega i Golfi di Squillare e di S. Eufemia e infine quella che, attraverso l'Aspromonte, unisce all'incirca le odierne Locri e Rosarno. Seguendo queste strade, Sibari fondò Poseidonia (Paestum) in Campania, e poi Laos (nei pressi del fiume Lao), Clampetia (vicino Amantea), Scidros (nell'area che va da Cetraro a Belvedere), Temesa (probabilmente intorno a Nocera Terinese) e all'interno, nei pressi dell'odierna Cosenza, la scomparsa città di Pandosia. Locri costruì le città di Ipponio (Vibo Valentia), Medma (intorno a Rosarno) e Metaurum (Gioia Tauro). Crotone dedicò invece il suo impegno sul versante jonico dando vita a Crimisa (Cirò), Petelia (Strongoli), Scillezio (Squillace) e Caulonia e sul Tirreno alla sola Terina. Con questa intensa attività colonizzatrice, le quattro città magnogreche controllavano praticamente tutta la Calabria. Qui la storia si intreccia con la leggenda, ma è indubbio che quella che il locrese Timeo, che rintracciò per Platone i testi sacri e segreti di Pitagora, definì, già dal VI secolo a.C., Megàle Hellas (Magna Grecia), rappresentò un momento di grande splendore nella storia dell'umanità. Non a caso, nel 1996 la mostra la mostra di palazzo Grassi a Venezia è stata dedicata appunto ai "Greci d'Occidente", che hanno avuto proprio in Calabria alcune delle espressioni maggiori. Infatti, nel Museo Nazionale di Reggio Calabria, e in quelli di Crotone, della Sibaritide, di Vibo Valentia, nell'Antiquarium di Locri danno mostra di sé i resti di quella che è stata definita civiltà italiota. Le testimonianze più note sono i Bronzi di Riace e la testa del filosofo, che rappresentano tra le manifestazioni artistiche in assoluto più belle e perfette del mondo antico e che sono conservati a Reggio. Queste opere però sono calabresi solo per caso, essendo stati ritrovati i primi al largo di Riace nel 1972 e la seconda nel tratto di mare di Porticello tre anni prima. Comunque attestano l'altissimo livello di civiltà raggiunto dalla Magna Grecia. La regione rappresentava per i Greci una terra promessa dove c'erano miniere di argento e di bronzo, campi fertili, boschi fitti, acqua abbondante, caccia e pesca assicurate ed in più al centro del Mediterraneo, culla della civiltà dell'Occidente. Adesso, i templi, gli edifici, le statue, le mura, le monete, le opere d'arte di queste città sono state in grandissima parte distrutte o rimangono ancora sepolte. Alcune di queste sono addirittura scomparse e se ne ha favolosa memoria. Ma gli echi sono giunti fino a noi: il leggendario splendore di Sibari, che era la più ricca e popolosa città dell'antichità, nota per l'espansione dei commerci e per la raffinatezza dei costumi. La potenza di Reggio, che controllava lo Stretto di Messina e che aveva, con Pitagora e Nearco, una delle scuole di scultura più prestigiose dell'antichità. La splendida e misteriosa scuola filosofica di Pitagora e quella medica di Democede ed Alcmeone, davano a Crotone una fama immensa, così come i suoi invincibili atleti, tra i quali Milone; narra Strabone, che in un'Olimpiade tutti e sette i vincitori delle corse allo stadio provenivano da questa città. Le splendide ed ineguagliate monete di Caulonia. Le inesauribili miniere di rame di Temesa. La città nuova gemmata dai Sibariti in fuga, Turio, dove vissero lo storico Erodoto ed il filosofo Empedocle. Le raffinate terrecotte di Medma, che si trovano al Metropolitan Museum di New York. Gli invincibili cavalli di Hipponium. E ancora oggi vengono ammirati con stupore i pinakes, raffinate tavolette votive che provengono da Locri, dove si sperimentò il primo corpo di leggi dell'umanità ad opera di Zaleuco, che limitò la figura sacra del giudice. E sempre a Locri, dove nacque Nosside una delle più famose poetesse dell'antichità, vigeva il matriarcato e si praticava la prostituzione sacra. E si ricorda Petelia, fondata dal nemico giurato di Ulisse, Filottete. Mentre la tradizione attribuisce la fondazione di Scillezio allo stesso Ulisse, il cui mito si staglia in tanti luoghi di questa terra, a Scilla come a Tiriolo. Era di Reggio il poeta Ibico, considerato uno dei nove massimi poeti lirici Greci dell'antichità, che per primo nominò nei suoi versi Orfeo, il cui mito diede origine a culti e leggende. Mentre era di Locri il grande lirico e musico Senocrito che ispirò Pindaro e l'"itala armonia". Su Pitagora, autentica celebrità dell'antichità, va aggiunto che egli diede il nome a una scuola filosofica che influenzò moltissimo la vita del suo tempo. Il concetto fondamentale, chiaro e misterioso insieme, era che «il linguaggio segreto del creato sta tutto racchiuso nei numeri». E fu proprio un suo allievo, Filolao, che concepì la teoria eliocentrica che oltre duemila anni dopo Galileo dimostrò. E che dire dei tanti templi maestosi, oggi scomparsi. Il più celebre era quello di Hera Lacinia, a capo Colonna presso Crotone, che, rivolto in direzione della madrepatria, era considerato il tempio di tutti i Greci d'Occidente. Oggi, delle 48 originarie, resta un'unica colonna, che è stata, scrive Lenormant, «risparmiata dalla potenza distruttrice dei secoli, e dalla mano ben più spietatamente devastatrice degli uomini». Mentre il teatro di Locri, fortunatamente riportato alla luce, e dove si può ancora oggi ascoltare un'acustica perfetta, è riemerso dopo tanti secoli. Ma le testimonianze sono infinite. Due problemi oggi sono aperti. Il primo è rappresentato dall'apporto dato dalle popolazioni indigene alla civiltà magnogreca e l'altro dall'attuale eredità dei Greci d'Occidente. Per quanto attiene il primo aspetto, bisogna ricordare che è «la geografia che fa la storia». E la Magna Grecia ne è una testimonianza evidente. Infatti, la collocazione geografica, le risorse esistenti, ne facevano il luogo ideale dove l'espansione economica (e di conseguenza le espressioni artistiche e l'organizzazione civile) ebbe le condizioni ideali per poter esprimere una civiltà senza eguali nel mondo allora conosciuto. Per quanto riguarda l'eredità attuale della Magna Grecia, dopo tanti secoli, essa è sicuramente rappresentata da immensi giacimenti culturali, sia quelli scoperti che quelli ancora sepolti nell'abbandonato silenzio delle terre calabresi. Ma ritorniamo a venticinque secoli fa per vedere in Calabria che succedeva. Dopo una coesistenza iniziale relativamente pacifica, tra le città magnogreche verso la metà del VI secolo a.C. iniziarono le discordie, che riproducevano a distanza lo scontro tra Atene e Sparta. Nel 560 Crotone e Locri iniziarono una guerra decennale che si concluse con la battaglia della Sagra, che vide la vittoria dei Locresi, sostenuti da Sparta. Dopo l'arrivo di Pitagora, Crotone mosse contro Sibari, fino ad allora sua alleata. Nel 510 a.C. ci fu una delle più grandi battaglie dell'antichità, nei pressi del fiume Trionto. Si trovarono di fronte 100.000 guerrieri armati dai Crotoniati, guidati dal leggendario atleta Milone, contro quelli dei Sibariti che li superavano per tre volte. La vittoria arrise a Crotone, che volle cancellare per sempre l'odiata rivale. E dopo settanta giorni di saccheggi venne deviato, sembra su idea di Pitagora, il corso del fiume Crati i cui flutti fecero sparire Sibari per sempre. La notizia della distruzione di quella che era ritenuta la più importante città dell'antichità addolorò i popoli amici, tanto che i Messeni si rasero i capelli in segno di lutto. I profughi di Sibari fondarono nel 444 a.C. Turio, protetti dagli Ateniesi di Pericle, che, secondo Aristofane, inviò il suo indovino ufficiale Lampone per individuare il sito della città nuova. Crotone diventò la capitale della Magna Grecia, ma questa superiorità non venne condivisa da tutti. Per esempio da Locri, che richiese l'aiuto del tiranno di Siracusa Dionisio, che sconfisse i Crotoniati nel 388 a.C. sulle rive del fiume Stilaro, e occupò per oltre un decennio la stessa Crotone. La Magna Grecia cominciò a diventare una terra di conquista, oggetto di mire espansionistiche sia dei tiranni Greci che dei Bruzi. Ma ecco apparire all'orizzonte la più grande potenza dell'antichità: Roma.

 

Schiavi di Roma

Roma all'inizio si contese con Pirro, re dell'Epiro, il predominio dell'Italia meridionale. I Bruzi e le città magnogreche si schierarono contro Roma, che nel frattempo aveva posto presidi nelle maggiori città della regione. Dopo la vittoria di Eraclea (280 a.C.), in cui usò gli elefanti ignoti ai Romani, Pirro raggiunge Locri, dove si impossessò delle ricchezze del tempio di Persefone, la dea dell'oltretomba e del culto delle stagioni, a cui erano dedicati i famosi pinakes. Ma si trattò di un tesoro maledetto, perché da allora fu un succedersi di catastrofi, nonostante qualche inutile e gravoso successo militare, passato alla storia come vittoria di Pirro. Lo scontro decisivo avvenne nel 275 a.C. a Maluentum, l'odierna Benevento. I romani restarono padroni del campo, imponendo pesanti condizioni ai vinti. I Bruzi riuscirono a mantenere la propria confederazione, ma subirono la confisca di gran parte dei propri territori, che diventarono dopo il 270 a.C. ager pubblicus, cioè proprietà del popolo romano. Ridotti alla povertà, la ribellione dei Bruzi esplose nel corso della seconda guerra punica. Infatti, dopo la vittoria di Annibale a Canne (216 a.C.), i Bruzi si schierarono con Cartagine, mentre le città magnogreche insieme a Consentia con Roma. I Bruzi furono determinanti per le vittorie di Annibale, che si spostò nel Bruzio a partire dal 205 a.C. Vi rimase per due anni, fino a quando, ripetutamente sconfitto, ritornò in Africa, non senza avere dettato, nel tempio di Hera Lacinia, una stele in cui narra le sue gesta. Nel frattempo, Annibale era stato spietato con quelle città, come Petelia e Turio, che avevano cambiato campo, alleandosi con i Romani. Gli stessi Bruzi si rifiutarono di seguire il cartaginese in Africa e si attirarono la sua vendetta e le sue maledizioni. Distrutta Cartagine, la repressione di Roma fu durissima verso i Bruzi. Essi potevano essere solo servi, adibiti alle mansioni più umilianti. E proprio la rivolta degli schiavi guidati da Spartaco, il gladiatore romano di origine Tracia, vide nelle terre dei Bruzi uno dei focolai più indomabili e nella Silva, l'odierna Sila, uno dei territori più inaccessibili al controllo di Roma. Talmente furiosa fu la rivolta che Spartaco, insieme agli etruschi ed ai "germani dagli occhi cerulei", viene citato tra i maggiori pericoli di Roma da Orazio, quello del "carpe diem", l'attimo fuggente. E nel 71 a.C. quando, dopo due anni di rivolte, Spartaco venne accerchiato e sconfitto dal console Licio Crasso nei pressi del fiume Sele, tantissimi erano i Bruzi tra i 5.000 morti in battaglia e i 6.000 crocefissi. La decadenza di quella che era stata la Magna Grecia diventò inarrestabile. Roma rafforzò le sue colonie e individuò in Crotone, Temesa, Turio e Vibo i suoi capisaldi. Con l'ampliamento degli orizzonti mediterranei, la regione perse la sua centralità. Le città vennero trasformate in municipi e diventarono ognuna indipendente, con ciò allentando gli antichi legami. Nelle campagne sorsero le ville rustiche, quali quelle di Monasterace, Tropea e Leucopetra. Proprio in quest'ultima soggiornò nel 44 a.C. Cicerone, notando che "la Magna Grecia è ormai completamente distrutta". Fin dal 132 a.C., a fini militari e commerciali, il console P. Popilio Lenate aveva fatto aprire la Via Popilia, che diventò l'asse dove si svolse lo sviluppo della regione. Essa partiva da Capua e, attraverso le Valli del Coscile e del Crati, toccava Cosenza per poi diramarsi sul Tirreno, raggiungendo Catona, dove c'erano già da allora i traghetti per la Sicilia. I Romani strinsero la regione in una morsa di ferro e cercarono di rimuoverne la cultura e le tradizioni, soprattutto quelle magnogreche. Ed è proprio allora che avvenne la famosa repressione dei baccanali, documentata dal celebre decreto senatorio del 186 a.C., che non a caso è stato ritrovato nel 1640 a Tiriolo. Il culto di Dioniso, dio del vino e dell'ebbrezza, era diventato un fenomeno di massa dopo gli effetti sconvolgenti dell'invasione di Annibale. Ma anche quell'intervento repressivo dello Stato, secondo solo alle persecuzioni cristiane dei secoli successivi, si poteva inquadrare nella lotta politica che a Roma si stava svolgendo tra le fazioni degli Scipioni e quelle di Catone, e cioè l'eterna lotta tra l'innovazione e la tradizione. Lontani, in tutti i sensi, dai riverberi degli scontri di potere, gli eredi dei Greci d'occidente avevano problemi prioritari a cui badare. Le loro terre, assegnate per la maggior parte agli aristocratici romani, venivano coltivate da servi Bruzi, determinando il consolidamento del latifondo e lo sfruttamento selvaggio del territorio, soprattutto dei boschi. Si registrò quindi un dissesto territoriale che provocò inondazioni, frane e, nelle zone costiere e pianeggianti, la piaga della malaria che fino a questo secolo ha infestato la regione. Pertanto, i centri vitali si concentrarono all'interno mentre diventò inarrestabile la decadenza delle città magnogreche. Prese corpo una società agricolo-pastorale che, come ha notato Lucio Gambi, "ha invertito in modo radicale il valore umano della regione: l'ha spinta a guardare verso l'interno e a volgere la schiena al mare, ha ristretto le sue aperture e le sue relazioni verso i paesi vicini, ha eliminato la vocazione marinara della Calabria". Nel frattempo il cristianesimo era penetrato, non in profondità ma subito nella regione, in quanto l'uso della lingua greca ne facilitava l'evangelizzazione. S. Paolo nel febbraio del 61 d.C. si era fermato a Reggio per un solo giorno e la nuova religione della salvezza si era diffusa le due aree vitali della regione in quel periodo: prima nelle zone costiere, che avevano scambi con il vicino oriente, e poi sulla direttrice della Via Popilia. Ed è proprio l'idea cristiana, già consolidata nella regione, che nel 305 muove Bulla, patrizio bruzio, ad armare 600 cavalieri e cinquemila soldati in Sila nell'ultima, generosa ed inutile rivolta contro i pagani di Roma, che avevano costretto alla schiavitù il suo popolo. Ma anche stavolta l'aquila imperiale riportava l'ordine in quella lontana provincia.

 

Barbari ma non troppo

L'impero romano era scosso dalle fondamenta. Oltre che dalla diffusione del cristianesimo, religione eversiva che predicava l'uguaglianza degli uomini ad una società che si fondava sullo schiavismo, c'erano incontenibili invasioni barbariche. In Calabria, giunse nel 409 Alarico, re dei Visigoti. Dopo aver saccheggiato Roma, Alarico si spostò verso sud ed imboccò la Via Popilia. Arrivò a Cosenza e la mise a ferro e fuoco, conquistò la città e vi si insediò per passare l'inverno. Non appena giunse la primavera, scoppiò un'epidemia di malaria che non risparmiò Alarico. I Visigoti, ricorda la leggenda, seppellirono il corpo del loro re, insieme con il favoloso bottino conquistato a Roma, nel letto del Busento, che venne deviato e poi fatto rifluire nel proprio letto in modo che la tomba del loro condottiero rimanesse inaccessibile per l'eternità. Dopo i Visigoti ci furono alcune incursioni di Ostrogoti e Vandali. Ma in questi anni bui, una luce si accese: Cassiodoro. Appena ventenne alla corte dei Goti di Ravenna, Flavio Magno Aurelio Cassiodoro, cortigiano colto e "gran tessitore di lodi dei sovrani goti vivi e morti", ricoprì le più alte cariche pubbliche, tra le quali quella di prefetto del pretorio nel 533, e si adoperò per una pacificazione tra i Goti e i Latini. Non riuscendo nel suo intento, si ritirò nella natia Squillace, lontano dalle contese del mondo. Dopo aver abbracciato gli ordini monastici, fondò il Vivarium, un monastero a cui impresse un indirizzo spirituale più aperto di quello dei benedettini. In questo cenobio, vera fucina di cultura, si attendeva, attraverso una disciplina severa, allo studio ed alla trascrizione dei testi della cultura classica greca e latina. Quando morì, tra il 570 ed il 580, attraverso l'opera di Cassiodoro erano stati salvati e tramandati tesori inestimabili, altrimenti destinati alla distruzione. Pur essendo, come ha notato Giovanni Pugliese Carratelli "isolato in questa sua iniziativa", a buona ragione è stato definito sia "l'eroe ed il conservatore della scienza fino al VI secolo" che "l'ultimo dei romani e primo degli italiani". Vista la sua collocazione geografica, la Calabria sostanzialmente fu solo in parte interessata alle invasioni barbariche, ma, paradossalmente, anche questo risultò un danno. Infatti, i popoli germanici, pieni di spirito vitale, posero le basi di civiltà nuove, distruggendo quelle precedenti ed in ciò ringiovanendole. Invece nelle terre che ospitarono i Greci d'Occidente e gli indomiti Bruzi anche questi sconvolgimenti giungevano attutiti.

 

Tra demonio e santità

Dalla metà del VI secolo fino a metà del IX la Calabria diventò prevalentemente un dominio dell'Impero di Bisanzio. Questo periodo ha lasciato segni indelebili nella storia della regione. Tanto per cominciare è proprio ora che assume il nome di Calabria, che fino ad allora indicava il Salento. Più che di un'equivoco, fu il frutto di un'espediente al quale ricorsero i Bizantini per non ammettere ufficialmente che uno dei territori più importanti era stato irrimediabilmente perduto. E quella che era diventata definitivamente Calabria assunse una grande importanza strategica nella politica bizantina, rappresentando il primo baluardo sia contro l'invasione degli Arabi della Sicilia e sia dei Longobardi che scendevano dal nord. Da entrambi subì non solo invasioni e saccheggi, ma anche vere e proprie dominazioni. Gli Arabi oltre a depredare stabilmente le coste calabresi fino all'età moderna, vi costituirono stabili teste di ponte, mentre i Longobardi tra l'VIII ed il IX secolo conquistarono la parte settentrionale della Calabria fino a Cosenza, dando vita ad una serie di unità amministrative dette gastaldati e fondando colonie militari come quelle di Longobardi e Mormanno. Per diversi secoli, la Calabria diventò non solo un immenso campo di battaglia ma una terra di mezzo, nello stesso tempo occasione di scontro e di incontro tra diverse civiltà. Indiscutibilmente quella bizantina ha lasciato i segni più duraturi fino al Rinascimento, molto ben al di là del dominio politico, soprattutto attraverso il grande movimento spirituale e culturale del monachesimo greco, che ebbe il massimo splendore in Calabria a cavallo dell'anno Mille. Infatti, la Calabria fu meta, a partire dal VII secolo, di monaci provenienti dalla Siria, dalla Palestina, dalla Grecia, dall'Egitto, a seguito delle invasioni degli Arabi e delle persecuzioni iconoclaste propugnate da Leone l'Isaurico, Leone Copronico e Leone V l'Armeno. Questo flusso si intensificò con il progredire delle conquiste islamiche nel bacino del Mediterraneo, che compresero, nel X secolo, anche la Sicilia. I monaci vennero in Calabria soprattutto per il contemporaneo dominio bizantino ma concorrevano anche la collocazione geografica e le testimonianze della Magna Grecia, che erano ancora considerevoli. Da ricordare che in Calabria era giunto già nel 363 S. Basilio che aveva dato vita ad una serie di monasteri che seguivano la sua regola. Nell'intera regione fu tutto un fiorire di lauree eremitiche, cenobi, monasteri, che da una parte aumentarono il distacco dalla Chiesa di Roma e dall'altro rappresentarono un prestigiosissimo centro di conservazione ed irradiazione della cultura. Il fervore mistico, accentuato dall'arrivo dell'anno Mille, aveva determinato tanti insediamenti da far paragonare successivamente alcune zone della Calabria (Rossano e il famoso Mercurion nella Valle del'Orsomarso) al celebre Monte Athos, mentre le attività di amanuensi, calligrafi e miniatori conservavano, creavano e tramandavano inestimabili tesori dell'arte e del sapere. Tra questi, oltre alle immagini del Cristo Pantocratore (vincente), della Madonna Odighitria (che mostra il cammino) o Achiropita (non effigiata da mano umana), è giunto fino a noi il celebre Codex Purpureus, forse realizzato in Oriente nel VI secolo e gelosamente conservato presso il Capitolo della Cattedrale di Rossano. Si tratta di un codice eccelso, realizzato su pergamena purpurea sottilissima, che reca scritte in oro ed in argento e miniature stupende. Sempre di Rossano è S. Nilo, morto quasi centenario intorno al Mille. Ammirato da pontefici e sovrani, aveva fondato monasteri, tra i quali quello di S. Adriano in Calabria e, nell'agro romano, quello di Grottaferrata. Ma furono innumerevoli, e in larghissima parte anonimi, i monaci che, lontani dal mondo, si dedicarono ad una vita di preghiere e di meditazioni e nell'attività di trasmissione della cultura. Erede di questa feconda tradizione è Barlaam da Seminara che, ad Avignone, fu il maestro di greco del Petrarca, il quale a chi gli diceva di voler andare a Costantinopoli per apprendere la lingua greca, invitava a recarsi invece nella più vicina e colta Calabria. Ma accanto all'attività feconda ed inestimabile dei monaci basiliani, chiusi nelle loro lauree e nei loro cenobi, tutt'intorno c'era l'inferno. Non solo per gli scontri continui tra Bizantini e longobardi, ma per la pericolosa pressione dei saraceni che, avendo definitivamente conquistato la Sicilia, imperversavano sulle coste calabresi. La prima incursione documentata è quella di Reggio nell'812 e per quasi un millennio le invasioni degli Arabi furono una costante nella storia calabrese. Fino all'ultima del 1793 che interessò Pizzo e Tropea. I Saraceni riuscirono nel IX secolo a costituire gli emirati di Amantea, S.ta Severina e Tropea, che però non durarono più di qualche decennio, perché l'offensiva bizantina, condotta da Niceforo Foca nell'882, li risospinse in mare. Ma le scorrerie dei saraceni continuavano. Fu allora che cominciò a prendere corpo il sistema difensivo rappresentato dalle torri costiere, delle quali oggi restano tracce di 159 costruite in gran parte sotto gli Spagnoli. E' impossibile documentare le scorrerie, che non si limitavano solo alle coste, ma che si sviluppavano anche verso l'interno. Infatti Cosenza fu saccheggiata più volte, tanto che gli abitanti, intorno al Mille, cominciarono a rifugiarsi nelle zone sovrastanti, dando vita ai "casali". Inoltre, c'erano anche nuclei di seguaci di Allah che avevano costituito delle basi all'interno della regione, come quella di Saracena alle falde del Pollino. Ma addirittura gli Arabi nel 982 fecero in modo che la Calabria non diventasse la più estrema provincia dell'Impero Romano d'Occidente, sconfiggendo a Punta Stilo Ottone II che era sceso in Calabria per rivendicarla quale dote della moglie, la principessa bizantina Teofane. E' stato giustamente notato come anche la Calabria "soffrì del logorio di due impotenze: quella musulmana che non riuscì a conquistarla, quella bizantina che non riuscì a ben difenderla". E fu proprio in questo periodo che avvenne la vera e propria fuga delle popolazioni dalle coste verso l'interno. Questo fenomeno, iniziato sotto i Romani, a causa delle infezioni malariche che infestavano le marine, divenne inarrestabile. Nacquero e si potenziarono gli insediamenti sulle alture, lontani dalle vie di comunicazione principali, chiusi ognuno in sé, realizzati spesso disboscando interi territori che accentuavano il dissesto idrogeologico. Le città più importanti del periodo bizantino furono, oltre a Crotone e Reggio, anche Catanzaro, Gerace, Rossano, Stilo, Nicastro, tutti centri posti saldamente all'interno della regione. Contemporaneamente si verificava una riduzione delle aree destinate all'agricoltura, con un conseguente incremento della pastorizia. Praticamente la storia andava a ritroso. Ed a ciò si deve aggiungere la diminuzione delle nascite, il disordine geologico, l'insofferenza dei proprietari terrieri verso il potere centrale. Inoltre la pesante politica fiscale bizantina si riversava sulle classi più umili mentre si tendeva a rimuovere ogni minima autonomia degli antichi municipi romani, che Leone il Savio sul finire del IX secolo pensò bene di sopprimere definitivamente. Nonostante siano trascorsi centinaia di anni, segnati da terremoti, devastazioni ed incurie, ancora oggi sono rimarchevoli le testimonianze bizantine nella regione. Solo per citare le maggiori: la Cattolica di Stilo, il battistero di S. Severina, le chiese di S. Marco, della Panaghia e del Patire a Rossano, la chiesa di S.Adriano a S. Demetrio Corone. Tra le figure del periodo, si ricorda Giovanni Italo, detto il principe dei filosofi, anticipatore di quell'umanesimo, che nel XV secolo vide uno dei massimi artefici nel bizantino Bessarione, che guardò sempre con grande rispetto alla preziosa attività svolta dagli "scriptoria" calabresi. Ma il dominio bizantino, così come per tutte le vicende umane, si avvicinava la fine.

 

Mileto capitale

Alcuni "uomini del Nord", detti Normanni, giunsero nel 1016 in Campania, di ritorno da un pellegrinaggio in Terra Santa. Abili sia come guerrieri che come politici, ben presto si ritagliarono uno spazio nell'Italia decadente dell'anno Mille. Si scontrarono, prevalendo, con il papato, che scese a patti. Occuparono il Mezzogiorno, che da allora restò unito politicamente fino al 1860, e furono in Calabria nel 1050 a S. Marco Argentano, dove posero una formidabile piazza d'armi. Guidati da Roberto dei conti d'Altavilla, detto il Guiscardo, cioè l'astuto, in una diecina d'anni conquistarono tutta la regione. Scelsero quale capitale Mileto, e vi costruirono la corte e la zecca, chiese ed edifici pubblici. Nell'opera di conquista del Mezzogiorno, i Normanni ebbero un grande alleato nella Chiesa di Roma, che li aveva riconosciuti sovrani e che in cambio ottenne il loro aiuto contro la Chiesa d'Oriente. In Calabria, in modo graduale, venne sostituito il rito greco con quello romano, furono costituite nuove diocesi e venne dato impulso alla fondazione di abbazie degli ordini latini, a cui vennero riconosciuti privilegi, prebende e poteri anche feudali. Sorsero così le abbazie benedettine di Cetraro, S. Eufemia, Mileto e Bagnara; quella certosina di S. Stefano del Bosco fondata nel 1091 direttamente dal fondatore dell'ordine S. Brunone da Colonia; quelle cistercensi della Sambucina, a Luzzi e di Corazzo, in prossimità di Castagna. Questi insediamenti avevano la funzione di promuovere la cultura e anche di favorire le attività agricole delle aree dove si insediavano, compito a cui assolsero egregiamente per alcuni secoli. Ci imbattiamo, in questo periodo, in una figura eccezionale: Gioacchino da Fiore. Posto nella Divina Commedia da Dante fra gli spiriti sapienti nel cielo del Sole ("lucemi da lato / lo calavrese abate Gioacchino / di spirito profetico dotato"), Gioacchino da Fiore nato a Celico intorno al 1130, venne unanimemente considerato un profeta, non nel senso di predizione del futuro, ma di annuncio della parola di Dio. Infatti nelle sue spiegazioni delle Scritture interpretava in modo originale i passi più oscuri, come quelli dell'Apocalisse, e annunciava il terzo stato della rivelazione di Dio: quello del Regno dello Spirito Santo. Entrò nel monastero della Sambucina, poi fu abate a Corazzo e successivamente maturò l'idea della Congregazione Florense, che prese corpo nel 1191. Guardato con sospetto dalla Chiesa, che a tredici anni dalla sua morte lo condannò nel 1215 per la sua dottrina trinitaria, egli ebbe grande seguito perché propugnava una Chiesa spiritualis, ricordando che Dio abbatteva i superbi e premiava gli umili. Esegeta tra i più famosi del suo tempo, Riccardo Cuor di Leone lo volle a Messina per farsi anticipare l'esito della Crociata, mentre l'abate Adamo di Perseigne lo convocò a Roma per avere notizie sull'avvento dell'Anticristo e l'imperatrice Costanza d'Altavilla, madre di Federico II, volle confessarsi, umiliandosi davanti a lui, nella Cappella Palatina a Palermo. Era probabilmente il 1197, anno della morte del marito Enrico VI e Federico, il futuro "stupor mundi", aveva 3 anni. L'anno dopo, nel 1198, a Messina, l'imperatrice Costanza confermò a Gioacchino le precedenti concessioni e a memoria della grande madre qualche anno dopo lo stesso Federico firmò un diploma con il quale diede facoltà all'abate silano di costruire un eremo nell'estrema parte della Sila, dove c'era la massima concentrazione delle nevi, in modo che potesse servire da ricovero per sé e per i suoi frati nei rigidissimi inverni. Venne quindi concesso un territorio di mille passi in località Caput Album, attuale proprietà dei baroni Collice. Il messaggio di Gioacchino, in odore di eresia ed estremamente pericoloso per l'ordine costituito, ebbe largo seguito. L'ordine dei minimi, fondato da un altro calabrese, Francesco di Paola, richiamò lo spirito di umiltà e di rigore che animava l'abate silano, mentre anche movimenti dei flagellanti attendevano l'avvento dello Spirito Santo profetizzato da Gioacchino. Sarà causale, ma uno dei pochi esempi di flagellanti oggi rimasti, lo si può vedere proprio in Calabria, a Nocera Terinese, in occasione delle festività della settimana Santa. Infine, nella seconda metà del XIII secolo diversi movimenti mistici si richiamarono a lui, e tra questi soprattutto quello dei Fraticelli, dei quali esponente di spicco era quell'Ubertino da Casale, che viene descritto, a fianco di Guglielmo di Baskerville, ne "Il nome della Rosa", il romanzo di Umberto Eco. Sotto i Normanni vi fu una ripresa della vita economica e civile. Ridimensionato lo strapotere dei feudatari, che alla Corte di Melfi nel 1129 furono costretti a giurare fedeltà a Ruggero II, in Calabria si registrò una ripresa dei commerci per l'eliminazione dell'esoso fiscalismo bizantino e per riapertura dei traffici. Vennero create due circoscrizioni amministrative, dette giustizierati: quello di Val di Crati, corrispondente all'incirca con i confini dell'attuale provincia di Cosenza, e quello della Calabria, comprendente la restante parte di territorio. Da veri conquistatori, i Normanni rispettarono le usanze bizantine e le inserirono all'interno del loro Stato. Dopo Roberto il Guiscardo, nel 1085 gli successe il fratello Ruggero fino al 1101, quando morì e venne seppellito a Mileto. Sono molti i segni della civiltà normanna nella regione e, oltre a chiese e castelli, si possono trovare nel Museo Provinciale di Mileto, nel Tesoro della Cattedrale di Cosenza e presso il Museo Nazionale di Reggio. Da qui sono provenute le testimonianze calabresi della grande mostra di Roma nel 1994 "I Normanni, popolo d'Europa". Oltre alle abbazie che sorsero e si ingrandirono in quel periodo, e tra queste quelle forse più antiche erano quelle di S. Eufemia e di S. Angelo a Mileto, non si può non ricordare la splendida cattedrale di Gerace, dove si trova pure la chiesetta di S. Giovannello che, secondo Paolo Orsi, «dovrebbe essere custodita sotto una cappa di cristallo e toccata solo con mano guantata». Prese corpo, e venne razionalizzato, quel sistema difensivo basato sui castelli. Presìdi difensivi furono insediati a Neocastrum, presso il cui castello si verificò lo scontro tra Roberto il Guiscardo e il fratello Ruggero, e a Roseto Capo Spulico, dove i due fratelli, riappacificatisi, posero la Porta Roseti quale delimitazione dei rispettivi domini. Altra testimonianza è a Cosenza, rimaneggiata in epoca successiva, ed a Nicotera, dove nel 1065 il Guiscardo edificò sia un castello che la domus regia, che venne distrutta dagli Arabi nel 1122. Ma quando nel 1189 Guglielmo II detto il Buono morì senza lasciare eredi il trono toccava a Costanza d'Altavilla, figlia di Ruggero II e moglie dell'imperatore Enrico VI di Svevia. Ma i dignitari del Regno si opposero e a Palermo elessero quale re Tancredi, conte di Lecce e nipote di Costanza. La Calabria allora fu teatro dello scontro tra Svevi e Normanni e una battaglia particolarmente cruenta si svolse nel 1191 a Ruina, dove prevalsero le truppe imperiali condotte da Enrico Kalà. Gli scontri continuarono in Sicilia e durarono alcuni anni fino a quando, fiaccata ogni resistenza, Enrico VI venne riconosciuto re. Qualche giorno dopo, a Jesi, Costanza diede alla luce un figlio a cui venne imposto il nome di Federico Ruggero, in ricordo dei due grandi avi: Federico Barbarossa, sovrano del Sacro Romano Impero, e Ruggero II, conquistatore della Sicilia. Correva la notte di Natale dell'anno del Signore 1194.

 

Caccia con il falcone per Federico

A tredici anni, il figlio di Costanza assume il potere come Federico II. Il padre era morto da dieci anni, nei quali l'anarchia baronale aveva ripreso vigore. Sebbene in tenera età, prese subito in mano la situazione. Ristabilì l'ordine e impose che i privilegi feudali, l'amministrazione della giustizia, la maggior parte dei commerci e la sicurezza dipendessero esclusivamente dal sovrano, che regnava per volere di Dio ed era strumento della Sua Provvidenza. Con mirabile equilibrio, riuscì a fondere elementi della cultura greca e latina, araba e bizantina, normanna e sveva dando vita
ad uno Stato accentratore ma illuminato, cattolico ma tollerante verso musulmani ed ebrei, fieramente autonomo dalla Chiesa di Roma, tanto che, per due volte, venne scomunicato. La corte di Palermo diventò uno dei centri culturali più importanti del tempo, e proprio lì cominciò a prendere corpo la prima scuola poetica italiana, detta appunto siciliana, e dove c'era anche un nucleo di calabresi, tra i quali Folco di Calabria e Dolcietto. Nel 1224 fondò a Napoli la prima università statale d'Europa per creare i funzionari dell'amministrazione reale. Nel 1231 con le costituzioni di Melfi diede la prima raccolta di leggi amministrative d'Europa. In esse era considerato sacrilegio contestare le decisioni del re. La vita veniva così regolata dall'alto. Ed è proprio a quegli anni che Robert D. Putnam fa risalire le diversità tra Nord e Sud della penisola. Infatti, in quello stesso periodo al Nord si imponevano le libertà civiche, tanto che quest'epoca è stata definita l'Italia dei Comuni, nei quali c'era un autogoverno limitato ma diffuso, che incentivava i commerci e la nascita della classe borghese. Nel Mezzogiorno, invece, tra potere centrale fortissimo ed i baroni nelle periferie, ci venne destinato uno sviluppo al di fuori dei Comuni, che da noi non ebbero praticamente alcun ruolo. Più che di Comuni, la nostra è stata storia di feudi, che però, a differenza di quanto avveniva altrove, erano proprietà del sovrano e assegnati ai nobili o alla Chiesa. Ciò comportava i cosiddetti "diritti di uso civico" attraverso i quali i liberi cittadini potevano utilizzare le terre del feudo per le proprie necessità. A differenza di quanto si verificava nel resto dell'Occidente, nel Sud i diritti civili prevalevano su quelli feudali.

Federico venne in Calabria più volte. Nel 1222 consacrò il Duomo di Cosenza. In quell'occasione al vescovo Luca Campano, discepolo dell'abate Gioacchino, fece dono della splendida ed inestimabile stauroteca, la croce intarsiata d'oro e di smalti che contiene una reliquia della croce di Cristo e che si può oggi ammirare presso la Sovrintendenza di Cosenza. Per molti il regalo imperiale rappresenta, insieme al Codex Purpureus, il tesoro più splendido della Calabria. Nel 1234 istituì, con privilegi, le fiere di Cosenza e di Reggio, che ben presto diventarono tra le più importanti del regno. Fu tra i boschi secolari della Sila, probabilmente in località Federici di Camigliatello, dove secondo la tradizione avrebbe fatto costruire una torre, per cacciare con il falcone, il suo passatempo per il quale scrisse un trattato ancora oggi fondamentale, "De arte venandi cum avibus", finemente miniato forse dallo stesso imperatore. Favorì, così come in tutti i suoi domini, gli ebrei ed i loro commerci, tanto che colonie di israeliti si stabilirono o si consolidarono in numerose città della Calabria, quali Cosenza, Catanzaro e Reggio. Altri commercianti si insediarono in Calabria, provenendo da Amalfi, Nocera e da altre zone della Campania e da allora questi flussi sono stati tradizionali fino al Novecento. Venne incentivata la coltivazione degli agrumi, della canna da zucchero e la lavorazione della seta. Vi fu una consistente ripresa economica e culturale, con la creazione di nuove città, quale Monteleone, nei pressi della greca Ipponio, e la realizzazione dei famosi castelli federiciani. Infatti, vennero eretti o ricostruiti i castelli di Cosenza e di Nicastro, di Monteleone e di Roseto Capo Spulico, di Rocca Imperiale e di Belcastro e di Saracena. In quest'opera fu vicino a Federico anche l'architetto Nicolò da Cicala, che proveniva da quella Calabria dove, quattro secoli prima di Cristo, aveva dispiegato la sua dottrina Pitagora, il grande filosofo della matematica. E infatti, Federico credeva nel segreto dei numeri e nel suo significato occulto. I suoi castelli, a cominciare da quello pugliese di Castel del Monte, che egli disegnò personalmente, ne sono una testimonianza evidente e misteriosa.

Federico morì improvvisamente a Lucera nel 1250 e il regno che aveva suscitato l'ammirazione ed il timore dei contemporanei non gli sopravvisse. Infatti, i suoi discendenti non furono in grado di controllare né le mire della Chiesa, né le rivolte dei baroni. Seguendo uno schema fedelmente riproposto nei secoli successivi, la classe dirigente calabrese, formata allora dalla nobiltà e dagli alti prelati, in maggioranza si schierò con il partito del papa, quello guelfo, tendente ad ottenere maggiore libertà d'azione, concessioni e privilegi. Da noi, non si trattò di diverse visioni del mondo, ma molto più praticamente di interessi personali e locali, oltre che di elementare opportunismo. In Calabria si distinsero soprattutto alcune famiglie, e in particolare i Ruffo. Pietro Ruffo aveva origini normanne ed aveva ricoperto altissimi incarichi burocratici e militari con Federico, che nel 1247 gli avevano conferito l'incarico di vicario imperiale di Calabria e Sicilia. Scomparso l'imperatore, nel contrasto tra Corrado e Manfredi, si schierò apertamente con il primo e venne confermato quale vicario imperiale, oltre a ottenere l'investitura della contea di Catanzaro. Morto Corrado, fece gioco a sé, cercando di costituirsi una signoria, ma fallì nel suo disegno e venne ucciso da un sicario di Manfredi. Sostenitore del Ruffo era quel "Pastor di Cosenza", che Dante citò nel Purgatorio quando incontrò Manfredi. Era il vescovo Bartolomeo Pignatelli che fece profanare le ossa del sovrano svevo, ucciso nella battaglia di Benevento del 1266. Cominciò allora, per il Sud e la Calabria, la fosca dominazione angioina, che durò circa 150 anni.

 

La "notte angioina"

Col termine 'ngiuino (angioino) ancora oggi in Calabria si indica una persona crudele. Questo la dice lunga sul ricordo lasciato da questa dominazione, sotto la quale però la regione cominciò a prendere parte alla storia del Sud. Carlo d'Angiò, il fondatore della dinastia, si era recato nell'Italia meridionale su richiesta del papa Urbano IV, che considerava questi territori quasi un feudo di S.ta Romana Chiesa. Carlo d'Angiò, dopo aver sconfitto Corradino a Tagliacozzo nel 1268, consolidò il suo potere, assegnando i feudi ai nobili provenzali che lo avevano seguito e avversando implacabilmente i nemici. Ma i contrasti tra le opposte fazioni continuavano, alimentati dalla pressione fiscale regia e dalle crudeltà dei nuovi governanti. Reggio, Seminara, Stilo, Amantea, Squillace, Gerace, Bova furono teatro di scontri e saccheggi. Che divennero sistematici per tutto il ventennio in cui si combatté, tra Angioini ed Aragonesi, la guerra del Vespro, iniziata nel 1282 con la sollevazione dei siciliani, che avevano visto la capitale del Regno trasferita a Napoli, e le pretese dinastiche di Pietro d'Aragona, che era marito di Costanza, figlia di Manfredi. Si assisté ad alterne vicende, a tradimenti, a repentini cambi di fronte. Il più clamoroso fu quello di Ruggero di Lauria di Scalea che dopo essere stato il potente ammiraglio della flotta aragonese, innalzò la bandiera angioina e contribuì in modo determinante al loro successo. La guerra ebbe termine nel 1302: la Sicilia venne assegnata agli Aragonesi, mentre il resto del Mezzogiorno diventò il Regno di Napoli e restò agli Angioini. La Calabria era stata devastata da questa guerra senza quartiere, in cui i nobili avevano aumentato a dismisura il proprio potere. L'immobilismo economico, la cristallizzazione sociale, la pressione fiscale, la prepotenza baronale rappresentarono anche per la Calabria, come per tutto il Mezzogiorno continentale, elementi che non potevano certo favorire lo sviluppo economico e civile. Diverso era quanto avveniva a Napoli, la nuova capitale del Regno, che venne munita di edifici, chiese e palazzi, diventando una delle più popolose e importanti città d'Europa, seconda solo a Parigi. Il Maschio Angioino, fortezza che dimostrava nello stesso tempo la forza e la magnificenza della dinastia, è appunto di quel periodo.

Purtroppo la tranquillità durò per poco. Trascorsi poco più di quarant'anni dagli scontri con gli Aragonesi, salì sul trono di Napoli la regina Giovanna I, che per decenni governò all'insegna della sventatezza. Gli effetti sul Regno furono devastanti, né la situazione migliorò con la presa del potere di Carlo, del ramo dei Durazzo d'Angiò. Le lotte tra i vari rami della dinastia, salvo la parentesi in cui regno Ladislao, concentrarono quasi tutto l'interesse dei sovrani sulla capitale, mentre le province verranno lasciate in mano ai baroni ed agli alti dignitari della gerarchia ecclesiastica. Si imposero in Calabria, con ramificazioni a Napoli e in tutto il Mezzogiorno, famiglie quali i Ruffo, gli Spinelli, i Caracciolo, i Sanseverino, i del Balzo. Spesso erano in lotta tra loro, ma più spesso si schieravano tutti insieme appassionatamente contro il re, per difendere privative e privilegi. I nobili in questo periodo, così come in tutto il Mezzogiorno, si dotarono di palazzi e castelli, esprimendo anche così il loro potere. Vennero costruiti o ristrutturati il castello Ruffo a Nicotera, quello dei Sangineto a Belvedere e quello dei Sanseverino a Villapiana. Per volontà della regina Giovanna I si pose mano ai castelli di Reggio e di Amantea. Anche nei monumenti sepolcrali si celebrarono le glorie della nobiltà calabrese. Infatti di alta scuola, probabilmente quella di Tino di Camaino, sono i mausolei dell'ammiraglio Ademaro Romano a Scalea e di Filippo Sangineto ad Altomonte, mentre di pregevolissima fattura è l'arca di Niccolò Ruffo a Gerace. Ma la testimonianza forse più significativa si trova nel Duomo di Cosenza, ed è la splendida tomba di Isabella d'Aragona, regina di Francia, che morì nel 1271 di ritorno dalla Crociata di Tunisi. Oltre a bellissimi portali di chiese e case patrizie, disseminati in tutta la regione, il Santuario di S. Maria della Consolazione ad Altomonte e la chiesa della Riforma di S. Marco Argentano rappresentano i monumenti sacri più rilevanti dell'epoca.

 


Note

(1) Newton & Compoton,Roma,1996
(2) Mario Caligiuri, Nato nel 1960, è laureato in storia all'Università di Cosenza. Ricercatore presso l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli e docente a contratto presso l'Università della Calabria, ha pubblicato, tra l'altro, Partiti e società nell'Italia degli anni sessanta. Il caso della Dc calabrese (Rubbettino 1994). Giornalista, dal 1985 è sindaco di Soveria Mannelli (CZ).

continua seconda parte

free template joomla 2.5