L’edilizia di tradizione rurale nella conformazione delle aree urbane lametine

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  L’articolo riguarda uno studio fatto da Natale Proto (1) e Francesco Cicione (2) sull'edilizia rurale lametina, ma che in pratica è uno studio sul centro storico degli ex Comuni di  Sambiase  e Nicastro tra i più interessanti  della nostra terra di Calabria. Il lavoro esposto ad una conferenza dell'Unesco (3) è rimasto per molti anni nel dimenticatoio. L’amico, Paolo Strangis (autore di diverse iniziative socio-culturali ed economiche dell'ex nostro territorio di Sambiase, oggi Lamezia Ovest ) ne ha inviato copia  prontamente da noi pubblicata .    
Giuseppe Ruberto (Sito web Sambiase.com)

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 L’edilizia di tradizione rurale nella conformazione delle aree urbane lametine

The rural tradition building in the structure of Lamezia Terme urban areas

 

Natale Proto - Francesco Cicione

 

Introduzione

  Lamezia Terme, città della  Calabria centrale tirrenica, nasce nel 1968 dall’accorpamento di tre municipalità, comprendenti più centri storici di diversa origine temporale e culturale i quali costituiscono un contesto variamente edificato nel quale assume un rilevante significato l’architettura corrente e secondaria che per la sua diffusione, per l’evoluzione dei suoi caratteri formali e per la specificità dei suoi aspetti tecnologici, documenta un assai significativo e plurisecolare processo edilizio.
Questa architettura, definibile “di tradizione”, per l’uso esclusivo dei materiali locali provenienti da ambienti naturali e per il suo profondo legame ai valori di identità collettiva, determinati da un forte senso di appartenenza al “luogo”, ha origini prettamente rurali.
Così, come avvenuto nella gran parte delle città meridionali di piccola e media dimensione, l’edilizia di contado -“extra moenia”- è andata nel tempo a costituire il tessuto urbanistico-edilizio connotativo di una società di cittadini-contadini la quale -“intra moenia”- portava modelli di vita, e tradizione edificatoria, connaturatisi nel loro borgo d’origine.
Pertanto l’edificato storico lametino, pur nel suo stato di precarietà e di semi abbandono è una valida chiave di lettura dei complessi processi socio-culturali di una collettività che oggi vive una crisi d’identità poiché, pur essendo molto cresciuta dimensionalmete e soprattutto in seguito alla scelta aggregativa di più Comuni (scelta di tipo politico-amministrativo non coscientizzata e motivata dalla storia), non è riuscita ad erigere nell’esteso ed anonimo edificato contemporaneo nuovi e qualificati segni di civiltà  urbana nè ha saputo riconoscere nel costruito della città antica i significati culturali della sua tradizione che avrebbero consentito di sviluppare “modernamente” l’identità storica.

 

L’edificato storico di Lamezia Terme

La giovane città di Lamezia Terme è definibile come area urbana vasta e disarticolata conformata da plurimi nuclei edilizi storici dai quali diparte l’espansione edilizia moderna.
I due più importanti centri abitati antichi, Nicastro e Sambiase, di diversa età di fondazione e di diversa morfologia insediativa, sono stati nel corso dei secoli cittadine di riferimento territoriale ed ora costituiscono il nucleo di maggiore peso al quale si relazionano numerosi borghi e frazioni che mantengono quasi invariato il loro originario carattere.
Una peculiarità di questa area urbana complessa è che il suo edificato storico, sparso nel territorio, pur nella singolarità urbanistica che ogni nucleo ancora mantiene, presenta unitari caratteri edilizi, costituiti secondo precisi  modelli tipologico-residenziali e realizzati secondo plurisecolari tecniche costruttive, documentali di una cultura dell’edificare che trova consuetudini arcaiche nell’uso di materiali locali provenienti dall’ambiente naturale; consuetudini proprie e costitutive dell’edilizia rurale.
La produzione architettonica di “campagna” con il suo carattere vernacolare è l’espressione compiuta di quel “genius loci lametino” maturato nella coscienza collettiva non tanto come scienza del pensiero, quanto come applicazione tecnica motivata dalla volontà di realizzare un giusto luogo abitativo.

Questo edificato, sostanzialmente affine a quello che si ritrova nell’intero territorio regionale, è il risultato del rapporto che l’uomo costruttore ha costituito con la natura del luogo assegnatogli dal destino come spazio di scorrimento della sua esistenza: un rapporto, per necessità, intenso e vitale poiché solo quella specifica entità luogo, in cui l’uomo poteva radicare la sua procreatività, poteva offrirgli i materiali necessari per progredire fabbricando.

Con la manipolazione di quelle materie, facilmente reperibili e lavorabili, l’uomo costruttore è divenuto, per esperienza, ingegnoso artefice e qualificato conoscitore di tecniche e di metodi edilizi.

E l’area lametina ha offerto per secoli al suo abitatore la sua costitutiva primaria materialità dalle proprietà organolettiche ottimali per erigere opere resistenti nel tempo: la solida pietra presente in multiformi stati (dal minuto ciottolo fluviale al consistente masso di cava), la malleabile argilla ampiamente diffusa in pianura ed in collina, l’elastico e robusto legno dei castagni che infoltivano estesi boschi, la sottile sabbia delle sue numerose fiumare e le cave di  pietre calcaree, originate da acque ricche di minerali.

Tanta è stata l’abbondanza di questi beni naturali che per secoli non si è resa necessaria l’ideazione di produzioni per l’edilizia artificiali ed alternative.

Nella storia locale l’uomo costruttore coincide con l’uomo agreste, o da questo è stato strettamente dipendente, e la sua edilizia vernacolare ha mantenuto costanti ed intime rispondenze con il luogo non solo perché questo è stato l’elargitore dei materiali, ma soprattutto poiché esso nell’animo della società rurale si è coscientizzato come bene primario assoluto, tale da essere ritenuto  la  manifestazione   di  un  Ente  Supremo  che  si  presenta all’uomo ora come forza benevola che rende la natura ubertosa e favorevole al  ben vivere, ora come forza punitrice che “naturalmente” invia carestie, calamità e morte.

Proprio per questa coscientizzazione profonda del luogo-natura sacrale, il carattere edilizio vernacolare, di campagna, si ritrova ampiamente diffuso, nella sua  essenza  morfologica  e nel suo sistema tecnologico, anche negli antichi spazi urbani di Lamezia Terme che è città d’ascendenza prettamente rurale.

Infatti i Centri Storici di Lamezia Terme, come quelli della gran parte delle città meridionali di piccola e media dimensione, sono sostanzialmente costituiti da quartieri un tempo abitati quasi esclusivamente da cittadini-contadini che con la terra mantenevano rapporti attivi di dipendenza o di stretta correlazione e da borghesi che evocavano con la memoria le loro origini rurali.

L’intera classe sociale urbanizzata, che spaziava dal latifondista al bracciante e che comprendeva artigiani, burocrati e clero, riteneva il possesso di un bene fondiario, al di là della quantità di terra che lo costituiva, il patrimonio identificativo di un radicamento alla sua storia; esso costituiva lo spazio di riferimento della famiglia  dal quale si traevano certezze, quantomeno minimali, di sopravvivenza.

Pertanto l’abitazione urbana si andava a conformare ai caratteri propri della ruralità edificatoria: in quella di tipo palazziale, appartenente agli agrari, tali caratteri delineavano gli spazi dei piani terra dell’edificio padronale e le costruzioni aggregate a questo come volumi d’appendice distribuiti ai bordi dell’orto-giardino di pertinenza; mentre l’edilizia corrente non era altro che una casa rurale riportata “intra moenia” la quale, a seconda del livello economico sociale del proprietario, assumeva in maniera più o meno consapevole qualificati caratteri estetici, propri della casa di città, nella morfologia delle finiture e nei decori di facciata e degli interni.

Non entrava in città solo quella particolare edilizia rurale che connotava attività fortemente rustiche, di tipo silvo-pastorale, o che serviva per attività stagionali le quali impegnavano gli utenti in luoghi lontani dai centri abitati per dedicarsi a specifiche coltivazioni o a trasformazioni di prodotti agricoli che occupavano manodopera solo temporanea.

Questa edilizia, tecnologicamente definibile “leggera”, costituita da “pagliara”, “ciambre” e “capanne”, veniva realizzata con legni, paglia e similari prodotti naturali, che costituivano l’intero volume edilizio o solo le coperture di recinti murari realizzati in pietra.

 

Tipologie murarie

Nell’edificato antico lametino sono distinguibili due diverse categorie tecnologiche proprie dell’opera muraria principale: quella che utilizzava come materiale primario la “pietra” e quella che utilizzava il “vriesto”, blocco artificialmente prodotto in forma parallelepipeda, leggero e maneggevole, ottenuto da materiali comuni e localmente ampiamente presenti: la terra e la paglia.

La muratura in “pietra”, che trova riferimento nell’antico “opus lapideus” è l’arte del “mastro” edificatore, il muratore esperto e specializzato; il responsabile del cantiere e, spesso, l’interprete della forma architettonica stabilita dalla tipologia edilizia canonica scelta dal committente.

La muratura in “vriesti”, che riprendeva i più arcaici processi costruttivi bastati più sulla semplicità tecnologica che sulla ricerca di metodi solidi e resistenti nel tempo, rappresenta l’opera del “manovale”, l’artiere edile non specializzato, ma sufficientemente dotato di capacità manuali acquisite in cantiere con operazioni di tipo ripetitivo, che sapeva utilizzare materiali di semplice posa in opera, come lo sono i “vriesti”.

Manovalanza e materiali a costo limitato  permettevano la realizzazione, in tempi veloci, di economiche abitazioni  a piano terra e di quei manufatti edilizi che non abbisognavano di sviluppo multipiano per soddisfare le funzioni minimali alle quali erano preposte.

Una terza tecnologia edificatoria, localmente assai diffusa, è quella che accomuna nella fabbrica edilizia murature di  “pietra” e “vriesti”.

Questa è la costruzione d’eccellenza del “magistrale” fabbricatore il quale sapeva realizzare edifici, anche morfologicamente complessi, con economie di materiali e con contenimento dei tempi e dei costi.

In questo tipo di opera la struttura muraria lapidea andava a determinare la compagine portante primaria, mentre con i “vriesti” venivano realizzate le parti portanti secondarie, gli elementi materiali portati, le tamponature gli interventi aggiuntivi, d’appendice e di tipo minimale o provvisorio.

L’arte del fabbricare interamente in mattoni è sconosciuta nella storia edilizia lametina poiché, pur essendo esso presente nella plurisecolare produzione artigiana locale, non costruì mai il prodotto specifico  di fornaci  proprie e specializzate. Il mattone, in realtà, era una produzione collaterale a quella specifica dei “pignatari” e dei “ceramidari”  che comunemente utilizzavano l’argilla come materia prima per i loro manufatti.

I “pignatari” erano gli esperti della creta lavorata al tornio con la quale modellavano i diversi tipi di vasellame d’uso domestico e i contenitori dei prodotti agricoli, lavori tendenzialmente artistici e personalizzati.

Essi stessi inoltre producevano i “pignatelli”, piccoli cilindri formati anch’essi al tornio ed internamente cavi: questo era il materiale “pregiato” col quale si voltavano o si cupolavano spazi dell’architettura aulica.

I “ceramidari” erano gli specialisti produttori dei “ceramidi”, coppi d’argilla cotta che costituivano la locale tradizionale copertura dei tetti.

Il mattone si diffonde nel lametino come primario materiale murario solo intorno agli anni 20 del novecento quando nella regione si installarono vere e proprie fornaci di tipo industriale che rendevano economicamente vantaggioso e tecnologicamente più qualificato questo materiale rispetto a quello artigianalmente prodotto dai “ceramidari” e dai “pignatari”.

Con l’avvento ed il diffuso utilizzo  di questa produzione si va ad affievolire il genius loci architettonico proprio perché il mattone come prodotto industriale, seriale ed importato, non trova riscontro nella locale e storicizzata arte del fabbricare, nè trova “storia” nel pensiero coscientizzato lametino.

La cultura che arriva da fuori e che efficacemente non radica in loco è evento  ampiamente riscontrabile con la lunga presenza dei “greci d’oriente” che nel lametino vennero a fondare  città con mura ed architetture auliche di pietra di concio, arenarie e tufi resi “innaturalmente” perfetti con il rigoroso modellamento di geometrici blocchi lapidei; espressioni formali assai evolute, ma tanto estranee al sapere autoctono che con la fine del periodo ellenico questo non assimilato (o non accettato) materiale edificatorio non venne mai più utilizzato e ripreso.

I fabbricatori locali nei secoli seguenti continuarono nell’uso di materiali più antichi e più umili: la “pietra” ed il “vriesto”, più economici del concio o del rocco lapideo e più naturali e “veri” perché con la loro estetica rude e scabrosa si otteneva un rapporto osmotico tra l’abitazione e la terra, elettivo della loro sapienza-esperienza.

I conci tufacei vennero riproposti, magari recuperati dalle antiche fabbriche dei magno greci, solo per costruire cantonali, per ottenere squadrati basamenti o per scolpire elementi architettonici, ma questa non è l’opera del mastro fabbricatore ma dell’artista-decoratore.

Il breve periodo dell’utilizzo del mattone come primario materiale costruttivo, circoscrivibile tra gli anni ’20 e gli anni ’50 del XX secolo, segna la crisi della cultura edificatoria propria del “mastro edificatore”; essa cessa del tutto con l’affermazione del cemento armato, coincidente con la repentina crescita quantitativa dell’abitato. Il “mastro” come l’artefice della fabbrica edilizia ed il continuatore ed interprete della tradizione edificatoria non viene più richiesto dal nuovo mercato dell’abitazione, animato da un’importata modernità che consente veloci tempi di realizzazione ed elevati guadagni; egli cessa la sua attività o si trasforma in impresario edile: il protagonista indiscusso della contemporanea fabbricazione. Questi assume come motivazione operativa non più l’utile economico ottenibile con la realizzazione di un’architettura, ma quello determinato dal rapporto tra lotto da edificare (superficie) e caseggiato edificabile (volume): due entità che correlate da operatori dell’edilizia ignari della cultura urbanistica e disdegnosi dell’antico hanno prodotto grandi quantità di appartamenti contenuti in cubature irregolarmente invasive degli spazi liberi dell’area urbana o del suo intorno rurale. Questa spasmodica crescita ha comportato anche demolizioni di interi brani dell’edificato antico con facili e cospicui benefici economici dell’impresario edile che in sostituzione di questi ha innalzato condomini costitutivi di volumi “fuori misura”, violente lacerazioni della secolare scena urbana; per fenomeno indotto sono avvenute anche sopraelevazioni di edifici antichi costitutive di incongruenti superfetazioni mal eseguite e compromettenti l’equilibrio statico dell’intero immobile.

 

La muratura in blocchi di “vriesti”

Il “vriesto”, definibile come pietra artificiale cruda, è un blocco parallelepipedo di terra impastata con paglia ed essiccato al sole.

Composto con materiali umilissimi e di facile approvvigionamento, era prodotto soprattutto in ambito rurale per edificare abitazioni ed annessi rustici o per attivare, con una produzione a carattere familiare, una piccola economia collaterale all’agricoltura.

Il luogo di produzione erano le “arie”, gli slarghi dove nei mesi estivi si svolgeva la trebbiatura; erano questi i luoghi che consentivano, senza costi aggiuntivi, l’ottimizzazione del processo produttivo poiché in essi erano compresenti le materie prime necessarie e l’adeguato stato ambientale: il soleggiamento e la ventilazione per favorire un rapido processo essiccativo.

Le fasi della produzione si avviavano con la realizzazione di una buca mediante spalamento, operazione con la quale veniva costituito il contenitore ed al contempo si otteneva la terra sciolta, la quale veniva rimessa nella buca con intervallati strati di paglia, poi i due materiali, imbibiti con dosata immissione d’acqua, venivano impastati mediante pigiatura “a piedi” fino ad ottenere una giusta frantumazione della paglia ed una sua uniforme distribuzione nella terra argillosa.

L’impasto ottenuto s’immetteva in una cassaforma scatolare di legno, senza fondo e con manici esterni, poggiata su un terreno piano e compatto; il materiale molle veniva in essa compresso per pigiatura con un pestello ligneo, poi, tramite sollevamento a mano della cassaforma, restava in loco un parallelepipedo di materiale plastico, pronto per l’essiccamento; dopo la stagionatura il “vriesto”, così ottenuto, si accatastava in deposito ed in luogo riparato.

Le dimensioni del “blocco-vriesto” erano assai variabili, un tipo molto comune era di cm 8x16x24, ma generalmente l’altezza e la larghezza oscillavano da 12x12 cm a 18x18 cm mentre la lunghezza poteva passare da 26 cm a 32 cm.

La qualità del prodotto era fortemente condizionata dalla “bontà” del materiale d’uso che nelle produzioni più povere ed “improvvisate” consisteva in terra più o meno argillosa, spesso contenente diffuse “impurità” (sassolini di varia natura e dimensione).

Una produzione di “vriesti” più qualificata era realizzata dai “pignatari” e dai “ceramidari”, gli artigiani che realizzavano il cotto (mattoni, tegole, vasellame); questi usavano esclusivamente l’argilla proveniente da cave di creta locali ed i loro blocchi erano utilizzati soprattutto nell’edilizia urbana, in particolare per la realizzazione dei primi e dei secondi piani dell’abitazione e per le “quinte”, i timpani o mezzi timpani che determinano la pendenza della copertura a tetto.

Il processo edilizio delle abitazioni in “vriesti” ad un piano (i bassi) iniziava con la realizzazione di un basamento-fondazione in pietra che poteva raggiungere anche l’altezza di un metro.

Questa scelta tecnica, oltre che conferire una certa solidità all’impianto edilizio distaccando i “vriesti” dal suolo, evitava l’invasiva e deleteria umidità di risalita, causa prima dell’ammaloramento delle sue componenti materiche.

Sul basamento-fondazione si andava a costituire la muratura di “vriesti” affiancando e sovrapponendo i blocchi in modo da ottenere  allineamenti in continum orizzontale e in discontinuità verticale; ma questa posa non veniva ordinata con quella rigorosa geometria che è tipica della messa in opera dei mattoni.

Infatti gli allineamenti orizzontali non erano ottenuti con bocchi posti tutti nello stesso modo, ma in modo irregolare mettendo a vista, ad intervalli variabili, ora il lato lungo ora quello breve.

Questa voluta scomposta orditura porta a ritenere che il blocco, pur costituendo un elemento volumetrico ordinatore, non era concepito come il modulo-mattone, figurale di una regolare geometria, ma più come pietra artificiale e come tale seguiva il criterio di giacitura proprio della naturalezza lapidea, della quale l’opera del “vriesto” era considerata imitativa.

Una particolare giacitura del “vriesto” si otteneva ponendolo in posizione obliqua in modo che, sfruttando la possibile diversità di angolazione , si poteva realizzare una maggiore o minore sezione muraria ed una buona economia; inoltre questo tipo di giacitura determinava una facciata “spigolosa” dove sporgenze e rientranze favorivano l’aggrappaggio del paramento esterno, necessario per proteggere i “vriesti” dagli agenti atmosferici di tipo meteorico.

Un tipo di questo paramento protettivo dell’intera compagine dei blocchi si otteneva in opera mediante la “cuticchjatura”: una stesura di una malgama di malta e “cuticchji” (piccoli litoidi o cocciame) che, al contempo, costituiva una grossolana rasatura delle pareti, ma tale ”rustica” soluzione di finitura dell’opera in “vriesti” la si ritrova solo nelle abitazioni realizzate a basso costo; per quelle più “raffinate” si ricorreva alla “civatura”, tecnica che verrà illustrata in seguito.

La facciata muraria degli interni veniva intonacata con malta di calce e sabbia che formava uno spessore livellante e protettivo sul quale, come ricercata soluzione estetica, si passava una scialbatura colorata, spesso rifinita con decorazioni pittoriche ottenute con mascherine o per imprimitura con rulli a rilievi figurati.

Un uso più raffinato della muratura in “vriesti”, non tanto per la posa in opera quanto per il tipo di legante e per le soluzioni tecnologiche di particolari costruttivi, si ritrova nelle abitazioni in pietra ed  a più piani dove i “vriesti” occupano solo alcune parti della struttura edilizia.

Spesso per ottenere un’ottimale incasso nella muratura delle travi del solaio e del tetto veniva compresa nei “vriesti” una pietra piana “la chjancotta” che consentiva un solido elemento d’appoggio delle testate lignee e una più equilibrata ripartizione dei carichi; sovente nella parete a “vriesti” si includeva una trave obbliqua, portante della scala in legno di collegamento interpiano.

 La muratura in pietra del mastro fabbricatore

I litoidi erratici, recuperati con la bonifica dei campi da coltivare, quelli che costituivano le rive delle ampie fiumare o quelli ricavati da cave locali con la spaccatura di massi facilmente sfaldabili, erano l’elemento principale, “naturalmente” solido, del sistema fondale e della muratura in elevazione.

 I “trona” ed i “mazzacani”, le pietre più grandi del peso variabile dai venti ai cinquanta chili, insieme a sassi e ciottolame di varia entità realizzavano la compagine principale, staticamente equilibrata, che veniva resa più solidale dalla malta di calce e sabbia mescolata alla  “savurra”, le pietre minute che riempivano i vuoti.

Le pietre più grandi che presentavano almeno un lato tendenzialmente piano erano poste, con tale lato, in sporgenza di qualche centimetro dal filo murario che si stava erigendo, in modo che l’allineamento che tra di esse si andava a costituire “regolava” lo spessore di riempimento da realizzare con la “cuticchjatura”, la “savurra” o con la “civatura”, così da ottenere un andamento perfettamente livellato dalla parete.

La solidità della fabbrica era garantita dall’omogeneità di compattamento dei litoidi e dallo spessore murario che condizionava lo sviluppo in altezza; nell’edilizia palazziale dove gli ambienti si distribuivano su tre livelli, il piano terra, poteva raggiungere lo spessore di un metro ed oltre.

Con le rare pietre di forma naturalmente parallelepipeda, denominate “chjancotte”, venivano costruiti gli angoli della muratura e l’appoggio basamentale.

La casa di pietra “a vista”, che dava sicurezza mettendo in luce la solidità della perfetta posa in opera dei litoidi,  impreziosita spesso dal mattone che disegnava dettagli architettonici, illustrava un “non finito” parietale tecnologicamente perfetto e curatissimo pur nella sua rusticità, tanto da raggiungere una elevata qualità estetica.

Non finito perché privo dell’intonacatura finale, di quella “copertura” uniforme e colorata che avrebbe portato a compimento il linguaggio architettonico formale; ma che avrebbe definitivamente celato l’ingegnoso saper fare del mastro fabbricatore.

Ma questo stato di non finito, sovente, è tanto ammirevole che molta edilizia locale è rimasta congelata in questa “perfetta incompiutezza”: le pareti di pietra a vista con gli inserti di mattoni, vibranti per le diversità cromatiche dei materiali naturali e per il rilievo plastico dell’impostato disegno della facciata, con le buche da ponte in esse dislocate linarmente, pronte ad accogliere impalcati di intonacatori e decoratori che mai opereranno, segnalano il non compiuto architettonico e costituiscono, al contempo, l’argomento principale e più qualificato dell’arte edificatoria locale; le raffinate opere in ferro battuto (balconi, inferriate, lunette), le plastiche cornici modanate delle finestre, ed i portoni a bugne costituiscono parti della facciata in sé perfette e complete, queste sono in apparente dissonanza formale con la muratura (l’argomento principale della fabbrica) ma costituiscono con essa un lessico compiuto, se pur contraddittorio, esplicativo del verace genius loci lametino.

 

Il paramento murario a pietra “civata”

Una “qualificata” soluzione protettiva della muratura portante in pietra, spesso utilizzata anche per quelle in “vriesti”, è la “civatura”, opera dichiaratamente rappresentativa del livello qualitativo della maestranza ed in specifico dell’arte del “mastro”, il capo dell’impresa edilizia, del quale ne evidenzia la perizia esecutiva-dirigenziale.

Infatti la “civatura” non è altro che la posa “a mosaico” di scaglie di pietra, ottenute “scheggiando a foglia di alive” (d’ulivo) scuri litoidi scistosi frammisti a minuto cocciame di recupero da tegole frantumate; questi elementi posti in ricorsi orizzontali vanno a costituire il qualificato paramento di finitura esterno dell’opera muraria, esso con la sua regolarità livella e cela le scabrosità di superficie e le difformità del pietrame portante o la “rozzezza” dei vriesti dei quali anche ne protegge efficacemente la facile degradabiltà all’esposizione meteorica; al contempo consente, se realizzato, magistralmente, di ottenere un effetto di materia - tessuto   tramata   con   la  curata  positura  dei  piccoli  litoidi  e  del cocciame i quali, a cocciame i quali, a loro volta, per diversità materica determinano una modulata e variata coloritura che si espande per l’intera facciata.

Lo stesso termine “muratura civata” o “civatura”, derivato dal termine dialettale “civare” (cibare, dar da mangiare a piccole dosi, con cui s’indicava l’alimentazione dei pulcini) è significativo di una “delicatezza” manuale del porre in opera ed è anche emblematico del fatto che questa lavorazione edilizia veniva eseguita dai “discipuli”, giovani garzoni che operavano sotto la dirigenza del “mastro”.

Questi con tale esercizio forniva loro l’apprendimento della diligenza e della perizia costruttiva, necessaria per progredire nell’arte muraria della pietra dove l’equilibrio statico viene maggiormente raggiunto con il saper assemblare i difformi litoidi posti in opera dopo averli attentamente osservate per cogliere la loro ottimale posizione d’incastro nel contesto murario; il rapporto che il fabbricatore instaura con la singola pietra è l’atto che garantisce la qualità dell’opera, esso non s’improvvisa, ma  si raggiunge con l’esperienza.

La qualità estetica della muratura “civata” è condizionata dal tempo esecutivo necessario per porre in opera con accuratezza i piccoli elementi a perfetta regola d’arte capaci sia di creare il piano ben livellato per soprastendere un’uniforme intonacatura finale e sia di conformare i volumi preparatori costituitivi degli elementi decorativi delle facciate.

Pertanto per il costo elevato la lavorazione a “civatura” interessava solo abitazioni tendenzialmente di qualità.

Pietra a vista, muratura “civata” e mattoni, parsimoniosamente disposti in filari regolatori o preparatori della plastica architettonica che si voleva ottenere con la costituzione di lesene, bugnature, cornici e modanature, definiscono la perfezione tecnologia ed il gusto estetico del “mastro”, a tale livello di qualità che ricoprire con l’intonaco questa opera  eseguita con ammirevole e perfetta regola d’arte muraria appare come operazione superflua, impropria ed irriverente del genius loci.

Tale “non finito perfetto”, quando non è ricoperto dall’intonaco voluto dal gusto borghese del decoro, prettamente ottocentesco, che intendeva disegnare “alla moda” e con stilemi importati gli edifici che ricadevano in spazi rappresentativi della città (corso, piazze, municipio, chiese, palazzi) è rimasto nella sua integrità lessicale a documento della storicizzata e localizzata arte edificatoria.

 

Tipologie edilizie ed aggregative

La muratura di “vriesti” risultando poco onerosa, sia per il costo assai contenuto dei blocchi e sia per la facile e veloce messa in opera, veniva ampiamente utilizzata nell’ambiente rurale poiché, completata con la “cucchjiatura” o con un più semplice intonaco, consentiva la costituzione di residenze per i coloni o gli alloggiamenti per braccianti stagionali occupati nei latifondi, strutture abitative alle quali si affiancavano essenziali architetture a piano terra da adibire a ricovero di animali e di attrezzi agricoli, depositi e locali di trasformazione dei prodotti come i frantoi oleari e “palmenti”.

Questa tecnica costruttiva, prettamente di tipo rurale, “entrando in città” manteneva il suo stato tipologico e tecnologico originario solo nel costituire la residenza minimale: il “basso”, una unità abitativa che occupava il lotto edificabile canonico, “u luacu” di dimensioni 6x6 ml o “u mianzu luacu” di dimensioni 6x3 ml, con il lato più corto posto su strada.

Tale tipologia edilizia veniva realizzata in pietra quando lo consentiva la disponibilità economica del proprietario.

L’aggregazione di “più bassi”, formativi di schiere edilizie, era  il sistema insediativo spesso  realizzato  a grande scala in conseguenza ad eventi calamitosi, alluvioni e terremoti che avendo devastato intere   parti  dell’abitato  antico,  obbligavano  a realizzare  ex  novo  ed in  tempi  brevi  interi quartieri, dando l’opportunità di disegnare nuove regolari maglie, definite da regole pianificatorie.

Queste progettate maglie urbanistiche si costituivano in nuclei d’abitato con gli allineamenti delle case a schiera le cui facciate conformavano le quinte edilizie delle viabilità dette “rugha” o “vinella”, a seconda della sezione stradale; termini anche indicatori della gerarchizzazione socio-economica dell’insediamento urbano.

La schiera edilizia che presentava ingressi ed affacci solo su strada determinava nel retro la “Miraglia”, (rione) un continum murario già predisposto per l’addossamento di una nuova schiera estensiva della città.

Una più arcaica aggregazione edilizia era il “vaglio”, un organismo residenziale complesso d’ascendenza prettamente rurale che organizzava intorno ad un cortile (reminiscenza dell’aia) abitazioni poste in aderenza e tutte con ingresso e finestre su corte in modo da costituire, con le pareti esterne prive di aperture, un sistema insediativo protetto con un unico accesso dalla strada ben controllato.

Il termine dialettale “vaglio” riporta al “vallum” ed individua la “domus rustica” fortificata, attinente al latifondo agrario dell’età romana, documentata nell’area lametina da storici e da reperti archeologici.

Queste due canoniche aggregazioni edilizie nel tempo si sono evolute ampliandosi planimetricamente in modo differenziato: le schiere edilizie si sono frammentate per consentire l’innesto di nuove articolate maglie secondarie che spesso hanno costituitoo dedalici comparti residenziali, i “vagli” con l’intasamento nelle corti e con l’affiancamento di linee abitative all’esterno hanno perso l’originaria linearità di impianto complicandosi in nuclei morfologicamente complessi.

 

L’evoluzione tipologica dell’abitazione

Alla crescita planimetrica dell’edificato si accompagna, nel tempo, la crescita volumetrica della singola residenza che partendo dal monolocale a solo piano terra si sviluppa in altezza secondo diversificate tipologie distributive degli spazi e secondo diverse tecniche edilizie.

La casa minimale, il “basso”, si caratterizza per presentare sempre in facciata la “portella” o “mienza porta”, unica apertura con funzione unitaria d’ingresso e di finestra; spesso si ritrova sul prospetto anche una piccola apertura con anta lignea che serviva come cacciafumo, posta in prossimità dell’angolo dell’abitazione occupato dal “focolare”, costituito da un semplice basamento di pietre.

Questa tipologia residenziale, definibile essenziale e polifunzionale poiché conteneva anche animali ed attrezzi agricoli, si ampliava in conseguenza a nuove disponibilità finanziarie del proprietario ed enunciava con i nuovi volumi aggiuntivi e con gli eventuali elementi di finitura e di decoro della facciata la crescita sociale della famiglia.

L’ampliamento avveniva con la costruzione in altezza di un secondo livello o di più livelli e qualificava  l’abitazione poiché consentiva una differenziazione d’uso tra la parte innalzata, d’esclusivo uso residenziale, e quella sottostante rifunzionalizzata a solo ricovero d’animali, d’attrezzi e di masserie.

Questa sopraelevazione definiva una nuova tipologia alloggiativa ed imponeva adeguamenti tecnologici della muratura esistente che si attuavano con sistemi diversi, a seconda della disponibilità economica.

 L’intervento meno oneroso consisteva nell’ispessimento della muratura con la costituzione di un filare aggiuntivo “di vriesti”, realizzato all’interno, che fungeva da supporto del nuovo solaio, mentre addossato alla parete su strada veniva creato il “vignano”, la necessaria scala esterna in pietra che portava al piano superiore residenziale e che costituiva  anche un rinforzo parietale esterno; in tale intervento il piano superiore veniva edificato con blocchi di “vriesti” poggiati direttamente su quelli sottostanti e preesistenti.

Una soluzione più compiuta, che si attuava soprattutto quando s'intendeva realizzare una crescita in altezza su più livelli, consisteva nel rinforzare il piano terra con una doppia muratura in pietra che manteneva quella originaria in “vriesti” nel suo interno; spesso l’accrescimento della solidità si otteneva ponendo in opera il pietrame esterno secondo una rastrematura, costitutiva di un contrafforte basamentale.

Una terza soluzione, quella più tecnoligicamente corretta,  comportava la demolizione della muratura in “vriesti” del piano terra per riedificare questo con solida muratura di pietrame sulla quale si andavano a porre le pareti portanti del piano superiore costituite con nuovi blocchi di “vriesti”.

Sovente l’uso dei blocchi di “vriesto” è presente anche in fabbricati totalmente realizzati in pietra per costruire le pareti esterne che definiscono il sottotetto ( i mezzi timpani), le tamponature a carattere temporaneo dei vani porta e finestre ed i volumi dei locali rustici d’appendice all’abitazione, collocati negli orti, come ambienti d’appoggio alla residenza.

Una caratteristica dell’edilizia locale, riscontrabile sia in quella rurale che in quella urbana, è lo stato di incompiutezza e di semi abbandono: volumi inconclusi, sopraelevazioni lasciate al “grezzo”, sottotetti forzatamente resi abitabili, parziali intonacature di facciate; come se essa fosse sospesa in un'evoluzione temporale che non trova fine, dove fasi migliorative o degenerative documentano gli eventi della natura e le variabili economiche da cui dipende lo stato dell’edificio.

L’incompiutezza ed il semi abbandono sono i connotati significativi di una storicizzata precarietà, scandita da alluvioni, terremoti e carestie che hanno imposto un continuo attivismo edilizio fatto di recuperi e di riprese di rovine murarie, d'ampliamenti e di aggiustaggi improvvisati e precari, che poi restano tali nel tempo.

La casa “finita” a perfetta regola estetica, eletta tale soprattutto dalla finitura dei dettagli architettonici e dalla colorata intonacatura esterna, (l’ultimo atto del processo edilizio), è una “eccezionalità” nel panorama dell’edilizia locale antica.

Neppure l’edilizia palazziale a carattere aulico è opera perfettamente compiuta, essa stessa presenta, spesso, il non finito nella configurazione volumetrica o in parti della muratura esterna, soprattutto in quella non prospiciente sulla strada pubblica, quella che non “disturba” il decoro urbano.

Pertanto la muratura in pietra che appare a vista, o allo stato grezzo di struttura edilizia o in quello di prima finitura “civata”, concorre a delineare ed a caratterizzare sostanzialmente la scena urbana lametina mettendo in evidenza stati di degrado estetico, compromissione e precarietà statica, ma, spesso, anche il perfetto non finito del magistrale “mastro”.

La crescita della città in termini quantitativi e volumetrici, avvenuta in questi ultimi decenni e voluta come risposta alle necessità di miglioramento abitativo, non si è realizzata nel pieno rispetto di uno sviluppo armonico ed organico, rispettoso delle morfologie estetiche e delle norme costruttive che regolano l’edilizia antica.

Particolarmente degenerativo e rischioso è lo stato di antiche fabbriche ampliate in verticale con innalzamenti murari incoerenti all’impostazione tecnica originaria sulla quale gravano;  spesso a tale incoerenza si somma la variazione dell’equilibrio statico avvenuta con l’allargamento dei vani d’accesso ai magazzini dei piani terra, adeguati per consentire il passaggio delle automobili, o con l’alterazione della tecnologia edilizia originaria immettendo nuove parti strutturali in cemento armato, creando balconate e pensiline sostenute da putrelle in ferro o costituite con solette in cemento armato in aggetto.

A questa volontà arbitrariamente innovativa va aggiunto l’abbandono di un gran numero d'abitazioni dovuto all’esiguità degli spazi, all’alto costo di ristrutturazione ed alla loro ubicazione periferica; sono proprio queste abitazioni quelle che conservano del tutto, od in gran parte, lo stato originario, quelle per le quali si può approntare una saggia operazione di recupero che metta in atto, con tecnologie innovative e compatibili, il miglioramento statico del bene per mantenerlo come documento di una antica e qualificata sapienza dell’edificare.

 

Conclusione

Ciò pone l’urgenza di implementare una mirata metodologia di risanamento, recupero e riqualificazione del patrimonio in muratura dei centri storici lametini i quali, come è stato già accennato e come sarà successivamente ulteriormente meglio specificato nell’articolo, hanno caratteri di singolarità evidenti che li pongono e propongono all’attenzione della comunità accademica e scientifica quale “caso studio”.

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 Nostre note aggiuntive 

1.Natale Proto, architetto ed artista intellettuale nato a Roma da genitori calabresi, scomparso prematuramente. Fu professore presso il Liceo Classico "F.sco Fiorentino" di Lamezia Terme. Nel 1982 realizza una minuziosa ricerca sul territorio dal titolo " Forma e contenuto degli elementi architettonici di Nicastro", atta a far apprezzare le balconate, i portali, i capitelli di antichi palazzi, sconosciuti a molti nostri concittadini. Nel 2001 da Assessore Comunale ai Lavori pubblici realizzò il programma "Sinus lametinus": un sistema di interventi strategici per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio storico - culturale dell'area lametina. Poco tempo prima che scomparisse realizzò un Corso sull'Arte sacra con il quale aveva svelato le rare bellezze artistiche celate nelle chiese del lametino. 

2.Francesco Cicione è nato nel 1973 a Lamezia Terme. E' laureato in Ingegneria Edile. Nel corso degli anni è divenuto tra maggiori esperti di pianificazione territoriale. E' tra i principali collaboratori dell’economista Luca Meldolesi con il quale ha studiato i modelli internazional dell’architettura istituzionale. Da alcuni anni ricopre la carica di Vice Sindaco della nostra città di Lamezia Terme.

3.First International Research Seminar of Forum UNESCO University and Heritage on Architectural Heritage and Sustainable Development of Small and Medium Cities in South Mediterranean Regions

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