Testimomi del Tempo

“ÌCICA” – STORIE E LEGGENDE TRISTI DI EMIGRAZIONE.

 

fagus

di Francesco Antonio Fagà

Assistiamo, in questi giorni, ad un fitto dibattito acceso dalla fiction di RAI1 “La Sposa” che presenta un quadro della situazione sociale ed economica calabrese degli anni ’50 del secolo scorso che tocca, nel profondo, storie di dolorosa emigrazione di noi calabresi.
Mi appello al nostro incedere calabrese ““ÌCICA” che significa “si dice che …” , corrispondente al più antico dotto detto latino “vox populi, vox Dei” per raccontarvi una storia che può essere vera o essere falsa, oppure parzialmente vera, che riguarda una storia – leggenda di emigrazione che ho incrociato nel mio peregrinare nei Paesi dell’America Latina.

 ÌCICA è morto in questi giorni a Maracaibo (Venezuela), all’età di 92 anni, Turuzzu (Salvatore) “di Cirrei” (soprannome onomatopeico tipico sambiasino e chiaramente inventato) dopo una vita avventurosa di emigrazione, in quel Paese da dove pochissimi calabresi fecero ritorno, così come ricorda poeticamente anche la letteratura del nostro Franco Costabile (La loro Ombra: “…ma quei ragazzi/andati al Venezuela/hanno scritto la loro ombra/lungo i muri.”).

Paese incredibile quel Venezuela che imparai a conoscere nel 2006, ricco di risorse petrolifere, eternamente proiettato ad uno sviluppo economico straordinario ma mai realizzato, strategicamente affacciato sul mar dei Caraibi ed abitato da donne dalla bellezza straordinaria. Forse fu proprio questo ambiente a far sì che quasi nessuno dei nostri emigrati in Venezuela ha fatto ritorno in Calabria, lasciando anche molte delle cosiddette “vedove bianche”: mogli in eterna ed inutile attesa del ritorno dei propri uomini che lì trovarono, tra la mitezza del clima, l’impossibilità economica di un viaggio di ritorno e le fattezze ammalianti di quelle donne calde e bellissime i motivi del loro mancato rientro nella loro Terra.
Ma, ÌCICA, la storia di Turuzzu cominciò dalla sua partenza improvvisa e drammatica da Sambiase verso Buenos Aires, nel 1950 o 1951, in fuga dalla Legge dei carabinieri che lo cercavano per un plurimo omicidio efferato, per questioni “d’onore”, di cui era accusato e che gli costò una condanna a vita in contumacia.
ÌCICA in Argentina, il giovane Turuzzu, ventenne si ricostruì una vita aiutato da suoi compaesani nella periferia di La Plata, in una piccola fattoria di Berisso dove, per 25 anni, lavorò duro nei campi producendo e confezionando “Yerba Mate” e “frutillas” (fragole) e, sposatosi con Maria Flores, una Criolla (argentina di etnia indigena di Salta), crescendo due figli maschi sui quali proiettava tutta la sua voglia di riscatto sociale: Francisco e Josè.
Francisco e Josè di 23 e 21 anni, nel 1977, frequentavano entrambi la Facoltà di Legge nella vicina e prestigiosa Università di La Plata, in uno dei periodi più drammatici della storia argentina: quello della feroce ed arrogante dittatura militare dei Generali Videla, Massera ed Agosti che, nel marzo del 1976 aveva destituito, con un colpo di stato, Isabelita Peron.
Era il periodo della cosiddetta “guerra sucia” (guerra sporca) dove la Junta militar con metodi cruenti e di inaudita violenza fisica eliminava tutti coloro che erano oppositori o semplicemente non allineati, alla sua politica dittatoriale. Proprio nelle Università, nel corpo docente e studentesco, si concentrava il massimo dell’opposizione al Regime e trovavano terreno fertile le adesioni ai gruppi di lotta e resistenza tra cui i “Montoneros”. Francisco e Josè, entrambi studenti di legge, non erano e non potevano essere estranei a quel fermento di libertà e democrazia che percorreva l’anima dei giovani argentini.
In una tiepida alba della primavera australe, nel novembre 1977, Turuzzo rivisse le immagini del dramma della persecuzione da cui era fuggito: un gruppo di assaltatori del Regime, in abiti civili, piombò nella sua casa nel piccolo podere di Berisso per prelevare i due giovani. Turuzzo cercò immediatamente una mediazione civile ma la risposta fu, come nello stile di quei militari argentini, arrogante e inauditamente violenta: i militari lasciarono a terra, in un mare di sangue, dopo un cruento pestaggio: sia Turuzzo che sua moglie Maria Flores ed il corpo in fin di vita di Francisco, mentre Josè, anch’esso pestato a sangue fu caricato in una delle auto della falange per essere rinchiuso nel triste “Pabellon de la muerte” della Unidad 9 di La Plata, il carcere “politico” del regime.
Con tutta la forza della sua disperazione, Turuzzo ancorchè sanguinante, caricò i corpi feriti della moglie e del giovane Francisco sul suo camioncino per portarli in ospedale. A Maria Flores oltre ad innumerevoli ferite fu riscontrata la rottura del femore mentre Francisco andò in coma…. In poche ore Turuzzo si ritrovò nell’angoscia totale.
La tempra dura del calabrese, unita alla forza che derivava dal dramma, ingoiando ogni lacrima che tentava di uscire dal suo animo, lo riportarono quasi immediatamente a pianificare la sua risposta a quell’evento tragico. Turuzzo sapeva che un alto prelato di La Plata di cui era grande amico, aveva contatti stretti con il Colonnello Fernando Aníbal Guillén, allora comandante della famigerata Unidad 9 di La Plata. Per tramite del religioso, Turuzzo ottenne un incontro “riservato” presso la casa del Colonnello con l’obiettivo di chiedere ed ottenere il rilascio di suo figlio Josè.
Appena cinque giorni dopo l’assalto alla sua casa, Turuzzo, di buon mattino si reca a casa del Colonnello; mimetizzato nella parte interna della cintura dei pantaloni porta il suo coltello a scatto e lo stratagemma gli consente di superare la perquisizione dei militari all’ingresso della dimora.
Accolto nello studio privato dell’alto ufficiale, con voce calma e pacata, dopo brevi convenevoli, Turuzzo chiede al Colonnello notizie di suo figlio Josè, presumibilmente ancora rinchiuso nella Unidad 9. Il colonnello alza il telefono, chiama il carcere e chiede notizie di Josè … la risposta proveniente dall’altro capo del filo, pronunciata con voce metallica e priva di emozioni e che Turuzzo riesce ad ascoltare, è tragica: “Josè se fue con el avión”, letteralmente “Josè se n’è andato con l’aereo”. Una risposta terribile che è una certificazione di morte: come tanti ragazzi, considerati poi “desaparacidos”, Josè era stato prima drogato, poi caricato su un aereo militare ed infine lanciato da migliaia di metri d’altezza sulle acque argentate della foce del Rio de La Plata, oramai diventata la tomba naturale di decine di migliaia di tanti argentini oppositori politici della dittatura di Videla.
L’animo di Turuzzo è immediatamente percorsa da un dolore lancinante quanto sordo, silenzioso e pacato come quelle stesse acque che, come già lui sa, hanno accolto il corpo del suo secondogenito e, lentamente, srotola e divincola quel coltello a scatto occultato nella cintura. Avviene tutto in pochissimi secondi: Turuzzo scavalca la scrivania, mette il coltello alla gola del colonnello, gli intima silenzio, gli sfila la pistola dalla fondina e lo accoltella alla carotide lasciandolo esangue. Esce dall’ufficio con calma e, sulla porta, spara al soldato di guardia, prende il suo fucile e si dà alla fuga.
Qui ricomincia una nuova latitanza, nascosto tra le guglie della Cattedrale di la Plata e gli spazi sottostanti le tribune dello Stadio “56 y 1”, braccato come un animale e pieno di dolore e di odio, all’oscuro di ciò che accade ai suoi familiari in ospedale, l’unico vincolo che lo lega ancora a quella città. Turuzzo non scappa da La Plata, resta in città nascondendosi ma meditando vendetta; usa quel fucile rubato al soldato come un cecchino da guerriglia urbana e spara sui militari appena può, finanche alle guardie d’ingresso del carcere dell’Unidad 9, seminando tra loro terrore e morte. Poi, dopo qualche giorno, ottiene in qualche modo la notizia più tragica: anche Francisco è morto ed anche la sua Maria Flores travolta dal dolore. La latitanza di Turuzzo si sposta verso le Ande, prima attraversando la Provincia di Salta dove riceve aiuto dalla famiglia di Maria Flores alla quale, in cambio di denaro, lascia tutti i suoi beni di Berisso.
Da Salta, attraversando la frontiera andina, Turuzzo raggiunge il porto cileno di Altafagasta e da qui si imbarca come inserviente di una nave diretta a Panama. A Panama prende contatto con esiliati argentini, cambia nuovamente identità e si trasferisce a Caracas in Venezuela dove si ricongiunge con una cugina calabrese.
A Caracas, Turuzzo ricomincerà per la terza volta la sua vita, dapprima aiutando un suo zio nella conduzione di una fabbrica di sapone e poi aprendo una nuova attività creando una fiorente fabbrica di detersivi. Oramai anziano, a riposo nell’agio costruitosi con il suo lavoro, ma circondato dai nuovi affetti familiari: una nuova moglie, tre figli e otto nipoti, si dedicherà alla filantropia prendendosi cura di dare sollievo a tanti venezoelani in povertà costruendo un piccolo ambulatorio medico con visite gratuite per gli indigenti ma con il pensiero fisso alle tante ingiustizie subite; prima tra tutte a quella sua ragazza calabrese, giovane contadina e raccoglitrice di olive, violentata dal guardiano terriero che Turuzzo, per vendetta, ebbe modo di trucidare insieme ad una sua figlia prima di fuggire per le Americhe nei lontani primi anni ’50 del secolo scorso.
ÌCICA sia andata così, “…ma quei ragazzi/andati al Venezuela/hanno scritto la loro ombra/lungo i muri.”