Santo Sesto

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Santo Sesto (Sambiase 1929 - Lamezia Terme 2019 ) ha conseguito la Laurea in Lettere Moderne presso l'Università di Messina e, successivamente, il Diploma alla Vigilanza nella Scuola elementare presso il Magistero della stessa Città. Ha lavorato nella scuola elementare, per 11 anni, come insegnante, e, per 29 anni, come direttore didattico. Da parecchi anni, rivolge la sua attenzione allo studio dei dialetti e del vernacolo lametino in particolare. Frutto delle sue ricerche sono i volumi "Lamezia Terme nei proverbi e nel folclore" e "L'idioma lametino". Scrive su varie riviste regionali tra cui "Calabria letteraria", "Quaderni lametini", "Città".

Santo Sesto -  I termini  dialettali di Sambiase

Santo Sesto - I Proverbi a Sambiase

 

Significato del proverbi 

Non accadeva mai che una persona capitasse, per un qualsiasi motivo, nella casa d'un vicino e non venisse invitata a bere un bicchier di vino o, se era l'ora dei pasti, a sedere a tavola insieme coi padroni. Quest'ultimi non tradivano imbarazzo, se venivano colti alla sprovvista, convinti com'erano che

nduvi màngianu tri
màngianu quattru,

dove mangiano tre persone, possono ben mangiare quattro; né si scomponevano, se la dispensa non era ben fornita, in quanto confidavano nel detto, secondo il quale,

a ccasa 'i pizzenti
'u' mmanca strozza,

In casa dei pezzenti non mancano mai tozzi di pane,cioè si riesce sempre a trovar qualcosa da mettere sotto i denti. Oltre che nelle case e sul lavoro, gli uomini d'una volta trovavano modo di socializzare e di cementare la loro amicizia, incontrandosi in piazza.

Contribuiva enormemente, poi, a rinsaldare la rete delle relazioni e delle dipendenze personali, l'istituto del comparatico.
Chi teneva a battesimo un neonato o faceva da padrino ad un cresimando diventava automaticamente compare, oltre che per il figlioccio e per la sua famiglia, anche per l'intero suo casato, e tale rimaneva per parecchie generazioni. Ciò valeva naturalmente anche per la donna che si fosse prestata a far da comare di battesimo o di cresima ad una bambina.
L'uomo, poi, che riceveva l'onore di far da compare d'anello ad una coppia di sposi veniva a stabilire un duplice rapporto di comparaggio, uno col parentado dello sposo ed un altro con quello della sposa, e riceveva in cambio, da parte di entrambi, un grandissimo rispetto e il prestigioso appellativo di « 'gnuri », o signore.
Una particolare figura di comare, ormai scomparsa da tempo, era, una volta, « 'a cummàri 'i l'ugna », che era la persona - solitamente una vicina di casa - che si offriva, o veniva sollecitata, a tagliare, per prima, le unghie che il bambino si portava dalla nascita.
Il comparaggio comportava, per gli interessati, l'obbligo della stima, della fiducia e dell'aiuto reciproco e, non di rado, riusciva ad instaurare legami che si rivelavano solidi e duraturi quasi come quelli parentali.
Non si può non ricordare, però, a questo punto, il proverbio

mùartu 'u cumparìallu
'u' ssimu cchjù ccumpàri,

secondo il quale, il rapporto di comparatico cessa immediatamente di esistere, non appena viene a mancare « 'u cumpariallu », cioè il bambino che rese possibile il comparaggio.
Non sembra, parimenti, troppo favorevole ai compari, e specie a quelli d'anello, l'altro adagio

muglièri 'i ruga
e ccumpàri 'i Roma,

il quale consiglia a chi deve affrontare il matrimonio di scegliersi la moglie tra le ragazze del proprio rione, ma di far venire il compare da Roma, cioè da un luogo che sia il più lontano possibile. Ad ogni modo, erano molto numerose, una volta, le persone che, specie se molto in vista ed influenti, potevano vantare un numero sterminato di « sangiuànni », cioè di comari e compari, dai quali ricevevano sempre profondo e devoto rispetto.

Esiste, infatti, un gruppo di proverbi, i quali affermano che gli esseri umani, lungi dall'ubbidire all'istinto sociale, lungi dal coltivare i rapporti interpersonali, la cooperazione e la solidarietà, si lasciano guidare, nel loro agire, dall'avidità e dall'egoismo.
Il proverbio

ognùnu tira ll'acqua
allu mulìnu sua,

ognuno convoglia le acque verso il proprio mulino, sostiene che ogni individuo umano ha sempre di mira il proprio « particolare » e poco si cura se, nel cercare il soddisfacimento degl'interessi personali, arreca danno agli altri.
Improntato al più cupo pessimismo, è l'altro proverbio

amàru chi teni bbisùagnu
e ccerca aiùtu,

infelice chi ha bisogno e cerca aiuto agli altri.Tale proverbio che preclude la possibilità di essere aiutati dai propri simili nei momenti del bisogno suole essere ripetuto, spesso e con disappunto, ogni qualvolta una persona avanza a qualcuno una richiesta di aiuto e ne ottiene un diniego oppure un soccorso del tutto irrilevante.
Insiste sul motivo dell'egoismo umano, il proverbio, piuttosto curioso, ma carico di significato,

nissùnu ti dici:
làvati 'a fhacci
cà si' cchjù bbìallu 'i mia,

col quale, si avverte chiunque di non sperare nella generosità del prossimo, in quanto non esiste al mondo una persona talmente altruista da godere che un proprio simile stia meglio o faccia miglior figura di lei.
Lo stesso concetto vien ribadito dall'adagio

vita mia,
vita mia,
chi ti vo' bbeni
cchjù ddi mia,

secondo il quale, è da ingenui contare sull'affetto dei propri simili e credere che altri possa volerci più bene di quanto ce ne vogliamo noi stessi.
Crudo e sconfortante come i precedenti, ma dettato da profonda amarezza per l'ingratitudine umana, è il detto

'u fhari bbeni
è ddilittu,

il far bene è delitto. Avrà avuto, di certo, motivo di pentirsi amaramente del bene compiuto, colui che, per primo, mise in circolazione un proverbio del genere...
Ai proverbi fin qui riportati, i quali deplorano la mancanza di comprensione fra gli uomini, sono da accostarsi parecchi altri proverbi ispirati, tutti, all'individualismo tipico della vecchia società lametina, i quali potrebbero spiegare, in parte, le ragioni per cui stenta da sempre ad attecchire presso di noi, e nella società meridionale in genere, lo spirito cooperativistico e di collaborazione, che è molto diffuso, invece, in altre regioni d'Italia.
Uno di essi,

mègliu sulu
ca mal'accumpagnàtu,

meglio solo che male accompagnato, sentenzia (e non si può non essere pienamente d'accordo) che è preferibile operare in solitudine, piuttosto che in compagnia di individui poco affidabili.
Dello stesso tenore è, press'apoco, l'altro proverbio

menu Santi,
menu Patarnùasti,

meno Santi, meno Padrenostri, col quale, si pone in evidenza che si vive meglio quanto minore è il numero delle persone con cui si è in contatto.
E' in linea con i precedenti, l'adagio

sèmina e ffa' sulu
ch' 'on tti mbrighi
ccu nnissùnu,

semina e fa' da solo chè non litigherai con alcuno. E' implicito in tale adagio l'invito a rinunciare a mettersi in rapporto d'affari con chicchesia, se non altro, per evitare motivi di litigi e di discordie, che non mancano mai, quando si hanno interessi in comune.
Secondo una tale logica, è da respingere la società, non solo degli estranei, ma anche e soprattutto quella dei parenti, in quanto è cosa sommamente deplorevole che un individuo si metta in contrasto con quest'ultimi, per motivi d'interesse.
Ed ecco, allora, il proverbio

d' 'i tua,
arrassu cchjù chi pua,

dai tuoi, più lontano che puoi, il quale esorta, non solo a non avere interessi in comune coi parenti, ma a tenersene alla larga quanto più è possibile.
Esprime lo stesso concetto, ma in un modo assai più pesante, il proverbio

i parìanti
sunu i dìanti,

i parenti sono i denti, col quale, si vuol significare che l'interesse personale è al di sopra di tutto e che nulla, neppure la parentela, può farlo passare in second'ordine.
Non tutti i proverbi di carattere sociale, però, sono ispirati all'individualismo; e, specie per quanto riguarda i vincoli di parentela, non mancano i proverbi che li riconoscono apertamente e li esaltano a chiare note.
Uno di essi,

amàru
chini 'un dd'ha ddi sua,

esprime commiserazione per colui che vive solo e che non ha parenti a cui rivolgersi nei momenti del bisogno.
Assicura, invece, tranquillità e benessere a chi ha un vasto parentado, il proverbio

nduvi cc'è aggenti
cc'è argìantu,

Mette in guardia dal trattare gli estranei alla stessa stregua dei congiunti, il proverbio

'a carni ch' 'un ddùarmi
ùmili ti pari.

cioè le persone con le quali non hai una lunga consuetudine,,di vita, e che, quindi, conosci poco, ti sembrano amabili “ùmili”
Non dissimile dal precedente, è l'adagio

chini ha ppiatà
d' 'a carni 'i l'àutri,
'a sua s' 'a màngianu i cani,

il quale non esita ad affermare che dà la propria carne in pasto ai cani, cioè danneggia gravemente i propri cari, chiunque trascuri quest'ultimi e si mostri eccessivamente tenero con gli estranei.
Il motivo della voce del sangue, che non può essere in alcun modo soffocata, è presente nel detto

'u sangu tua,
si t'arrusti,
'un tti màngia,

il tuo sangue, anche se ti mette allo spiedo, non ti divora, cioè un tuo consanguineo, anche se ti offende e ti fa soffrire, non giunge mai al punto di danneggiarti gravemente, perché ne viene impedito dal richiamo del sangue.
Lo stesso motivo viene ripreso dal proverbio

d' 'i tua malu diri
e nno' mmalu sintìri,

col quale, si sottolinea che si può pure sparlare dei propri consanguinei, ma che il sangue si ribella, quando a sparlarne sono gli estranei. E' convinzione diffusa nel popolo, insomma, che i vincoli di parentela non possono mai venir meno, a dispetto di tutti i contrasti e le incomprensioni che possono manifestarsi in seno ad un parentado.
Proverbi ugualmente contraddittori si registrano sul tema dell'amicizia.
In verità, l'amicizia, quella sincera, leale, disinteressata, premurosa, è stata sempre tenuta in altissimo onore e sempre fortunatissimo è stato considerato colui che ha potuto contare su amici degni d'un tale nome. Al riguardo, però, il Lametino non si è mai fatto troppe illusioni: è stato sempre dell'avviso che l'amicizia vera fosse cosa rarissima e che occorresse essere molto cauti nell'accettare qualcuno come amico. In ciò egli ha sempre dimostrato di essere un degno erede dei Greci, i quali lasciarono scritto, in un papiro venuto alla luce non molti anni fa, la massima, ricca di significato: «Non dirai alcuno tuo amico, se non avrai prima consumato con lui un moggio di sale ».
Così, al ben noto adagio

mègliu 'n'amìcu
ca cìantu ducàti,

meglio un amico che cento ducati, fa riscontro il proverbio, piuttosto deprimente,

'amìcu ti po' bbìdari
quand'hai
e tti saluta
'i cìantu miglia 'i via,

cioè l'amico ti vede di buon occhio, quando sa che navighi nell'abbondanza, ma - si sottintende - è pronto ad abbandonarti, quando la fortuna ti volta le spalle.
Non è da sorprendersi, pertanto, che il proverbio

si vo' 'mbitàri 'amìcu,
carni 'i crapa e lligna 'i fhicu

consigli, per difendersi dall'avidità dei falsi amici, di offrir loro da mangiare, quando ti piombano a casa, carne di capra (che è molto dura a masticarsi), cotta con legna di fico (che arde con difficoltà, producendo molto fumo).
Il detto

canùsci 'amicu
e ddàssalu

esorta a tagliare i ponti, senz'altro, con tutti coloro che ritenevamo amici e che, alla prova dei fatti, hanno dato a vedere di non meritare la nostra fiducia.
La saggezza popolare ritiene, infine, di poter suggerire alcuni accorgimenti che, se usati in modo opportuno, possono evitare il deterioramento dei rapporti tra gli uomini e, specie, tra le famiglie d'uno stesso vicinato.
Il proverbio

si rispetta llu cani
ppi rriguardu d' 'u patrùni

afferma che il vero rispetto per gli altri esige che si abbia riguardo, non solo per le persone con cui si è in diretto rapporto, ma anche per le loro famiglie, per i loro parenti e per le loro cose.
Col proverbio

alla mala vicina cci ha' cacciàri
'u jùri d' 'a cucina,

si arriva addirittura ad affermare che i migliori bocconi, cioè le maggiori attenzioni, sono da riserbarsi ai vicini più scontrosi, a quelli dal carattere più difficile, nella consapevolezza che « si prendono più mosche con una goccia di miele che con un barile di fiele ».
L'adagio

quandu 'u vicìnu teni
'addùru ti ndi veni

esorta a non guardare con occhio d'invidia alla prosperità dei vicini di casa, perché quand'uno di essi vive agiatamente, ne godono, in maggiore o minor misura, tutti quelli del vicinato.
Nel ricercare, poi, - per poterli meglio rimuovere - i motivi di contrasto o, peggio, d'inimicizia fra gli uomini, il popolino ha sempre ritenuto di dover mettere in guardia chiunque dal riprendere i vizi del prossimo e dal concedere facilmente denaro in prestito.
Il proverbio

si vua acquistàri 'nimicizzi,
'mpresta dinàri e rriprìndi vizzi

promette, infatti, incomprensioni ed inimicizie sicure a tutti coloro che inclinano a concedere facilmente prestiti e a biasimare i difetti altrui.
Sul tema dei prestiti, in particolare, il proverbio

s' 'u mprìastu fhussi bbùanu
ognùnu 'mpristèra lla muglièri

sostiene che, se il prestar danaro o altro fosse una buona cosa, non si esiterebbe a dare in prestito la propria moglie.
A proposito, poi, di coloro che non disdegnano di scoprire gli altarini degli altri, l'adagio

alla casa d' 'u mpisu
'un mpèndari 'a lumèra,

identico, pressocché, al detto italiano « in casa dell'impiccato non parlar di corda », esorta a guardarsi bene dal mettere a nudo le debolezze e le qualità negative delle persone con cui si è in contatto. Prudenza vuole che, nei rapporti col prossimo, si usi sempre la massima discrezione possibile, in quanto il dir la verità con troppa spregiudicatezza non giovò mai a nessuno, anzi fu sempre causa, se non di aperta discordia, certo di sordi rancori.
Appropriati detti, poi, consigliano di astenersi dal mettere il naso nelle faccende private del prossimo, in quanto

sa cchjù llu pazzu 'ncasa sua
ch' 'o sèriu 'ncasa d'àutru,

sa più il pazzo nella casa propria che il savio nella casa altrui.
Così, a chi ama trinciare giudizi e sputare sentenze sull'operato dei propri simili, il proverbio

i guài d' 'a pignàta
'i sa' lla cucchjàra
chi cci rota

ricorda che nessuno può presumere di conoscere i problemi d'una famiglia più dei diretti interessati e, quindi, nessuno, più di loro, è in grado di risolverli.
Per quelli, poi, che tendono a pontificare e a dar consigli a destra e a manca, senza, però, cimentarsi mai personalmente nell'azione, il detto

chini è f fora d' 'abballu
abballa bbeni,

chi è fuor del ballo balla bene, afferma che si è sempre molto bravi a dirle, le cose, ma non altrettanto bravi a farle.
Sempre sull'ingerenza nei fatti altrui, non poteva mancare l'esortazione a tenere a freno la lingua e a fare un uso moderato della parola. Essa è contenuta nel proverbio

'a lingua 'unn'ha ùassu
e rrumpi llu mastrùassu

la lingua non ha asso, ma spezza la spina dorsale. Quest'ultimo proverbio, molto simile all'italiano « ne uccide più la lingua che la spada », suole essere adoperato specialmente per stigmatizzare il comportamento di quanti indulgono alla maldicenza, o - come si dice con un caratteristico termine lametino - « allu chjàtu ».
Esiste, infine, un proverbio dettato da grande senso pratico, a cui i nostri progenitori hanno sempre mostrato di attribuire moltissima importanza: è quello che recita:

si vua èssari amatu e ddisiàtu,
'un gghjìri allu spissu
nduvi si' bbulùtu,

se vuoi essere amato e desiderato, non andar troppo spesso dove sei voluto, cioè, se vuoi conservare immutato, anzi se vuoi accrescere, l'affetto delle persone che ti amano, fatti da loro un po' desiderare, evitando di opprimerle con una troppo assidua presenza.

Note

Estratto da “Quaderni Lametini”, capitolo Storia " Come eravano" di Santo Sesto, numero 7 Novembre 1986 – Diocesi di Nicastro.

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La ricerca di Santo Sesto, studioso attento ed innamorato di tutto ciò che abbia a che fare con la tradizione calabrese e lametina in particolare, è il primo approccio veramente serio al nostro vernacolo.Santo Sesto, infatti, non si è limitato, come già avvenuto per alti! lavori anche ponderosi di altri ricercatori, a cercare detti e parole del passato a mo' di curiosità intellettuale fine a se stessa, rea si è sforzato di ricostruire la genesi storicosociale della parola stessa, di dare una spiegazione alle cause del processo evolutivo della lingua, di carpire il segreto del meccanismo strutturale regolato da una grammatica mai scritta, ma di fatto esistente nella pratica linguistica orale quotidiana della nostra gente del passato.

Come egli mi confidava, nella sua modestia, il suo lavoro vorrebbe essere soltanto lo stimolo per più ampie ricerche e studi sii una tradizione linguistica che merita rispetto e che, sotto molti aspetti, rappresenta forse l'anello di congiunzione più manifèsto ed eclatante tra il latino e l'italiano moderno. In fin dei conti, il latino che già in età classica si parlava da Napoli in giù, il latino del “vulgus”, era molto simile, anche ira certe strutture fonetiche, al nostro dialetto (la caduta della consonante finale dei casi diretti; l'uso esteso dell'ablativo; l'uso a mo' di articolo dei pronomi “is'; "ille" ed "unus';- l'uso di vocaboli sempre più popolari di origine rurale o erotico-sessuale, come già in Catullo e Marziale, per noia parlare di Petronio, ecc.). Ben venga, dunque, il desiderio di approfondirne il problema; ma il lavoro dell'amico Sesto, per quanto "modesto" come egli afferma, appare invece già molto interessante, presentandosi corree una sorta di manualetto di linguistica, agile e piacevole, che potrebbe essere utile anche a quegli alunni che si accingano a studiare la lingua latina. E poi, attraverso l'analisi delle varie espressioni e parole, si coglie il "sapore" antico di una civiltà che il cosiddetto progresso frenetico moderno e la moda di una cultura sempre più "nordista" pare vogliano seppellire e nascondere (colpa e vergogna, soprattutto, dei nostri intellettuali!). Ma le nostre radici sono quelle ...Proviamo, piuttosto, a non dimenticarcene e ad esserne degni!

Umberto Bartoletta

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