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A Sambiase la picciotteria e la camorra tra la fine dell'800 e l'inizio del 900

Picciotteria e camorra a S.Biase, tra la fine dell'800 e l'inizio del '900(1)
(Tratto dal libro" 'Ndrangheta dall'Unità a oggi", di Enzo Ciconte, Editori Laterza,1992)

(....) a Sambiase, in questo borgo eminentemente agricolo, nel 1896 la Sezione di accusa si occupò di 96 imputati sulla base di una decisione della Camera di consiglio del Tribunale di Nicastro. I picciotti di Sambiase erano "in relazione" con quelli di Gizzeria e di Nicastro.

I giudici della Sezione di accusa, che vagliarono i reati commessi nell'ultimo decennio, esclusero la responsabilità di un sacerdote che invece era apparsa certa per la Camera di consiglio del Tribunale di Nicastro, argomentando che "trattandosi di un grave delitto, per cui non bastano le voci generali, i semplici si dice; ma invece occorrono indizi positivi, univoci, sicuri, tranquillanti".
L'anno successivo, sempre a Sambiase, un nuovo processo di appello riunifica tre sentenze del Tribunale di Nicastro di quello stesso anno. La 'ndrina, composta di 31 elementi, era accusata di vari reati commessi a partire dal 1891.

Questa associazione organizzata erano fra loro legate tra loro da un giuramento che si prestava sul coltello e l'ammissione era subordinata al pagamento di lire 7.50 e ad una distribuzione di vino. Il luogo di riunione era nell'abitato del cortile di casa Scalfaro dove l'esercizio dei settari era la scherma al coltello. I segni esterni di riconoscimento era la foggia del taglio dei capelli, il cappello a cencio portato in modo particolare.Si imponevano col contegno spavaldo e provocatore. L'abitudine a volere sopraffare le persone oneste con l'esercizio frequente di atti di camorra. Il loro lavorio lo dimostravano con innumerevoli danneggiamenti alle campagne.

Agli inizi del Novecento andò alla sbarra una nuova 'ndrina, le cui diramazioni da Sambiase si protendevano fino a Platania e a Gizzeria. Quel che caratterizza la 'ndrina - il cui capo primitivo degli affiliati, i quali aggiunsero il titolo di "Società dei camorristi", era Raffaele Amendola, il quale prima di emigrare insieme ad altri negli Stati Uniti d'America cedè quel grado con l'assentimento dei subordinati soci, al prevenuto secondo capo Antonio Ruberto, - è l'azione per "riscuotere l'utile della camorra" soprattutto sopra i locali pubblici. Nel solo anno 1899 ci furono, a Sambiase, ben 402 denunce.

I gradi ascendenti di tal ben organizzata associazione erano di picciotti, picciotti di sgarro, tra cui un segretario depositario di carte,maestro dei dritti e doveri,maestro di scherma e poi camorristi e sottocapi. Rivestiva la carica di segretario Pasquale Caparrotta; con i gradi di cassiere era Francesco Amendola; di conservatore delle carte Francesco Petronio; maestro di scherma e camorrista e sottocapo Oreste Renda. Mentre camorristi semplici erano Giuseppe Raso,Giuseppe Amendola, Francescantonio Marrello e Giuseppe Marrello, il quale ultimo era nell’occorrenza anche sottocapo. Quando, venne processata la 'ndrina sambiasina i giudici della Corte di appello scriveranno in sentenza che - "il giuramento" era stabilito con lo statuto, che per essere troppo gelosamente custodito, non fu possibile repertare, e che l'ammissione essere proclamata da sei picciotti e da un sottocapo.

Un picciotto pronunciava la formula: col permesso di voi Capo contabile e dal rimanente di questa società questa mattina passo la votazione franca e libera sul conto di ( e si faceva il nome dell'aspirante). Nel caso in cui quella postulazione fosse stata respinta, veniva all'espulso suggerito il rimedio, previsto dallo statuto, il diritto di appellarsi all'assemblea dei camorristi, i quali unitamente al Capo della società, il quale poteva abilitare o derimere le controversie fra gli associati. Decisa l'ammissione,era in obbligo del neofita di versare al cassiere la stabilita tassa di lire 7.50 o almeno lire 5.00 . In tal caso doveva sopperirsi con complimenti di vino e cibaria per i camorristi; dopo del quale si "seguiva la importante e misteriosa formalità del giuramento.

A tal uopo, in presenza dei soci, si conficcava nel terreno la lama di un pugnale, o coltello, con il neofito picciotto che tenendo in mano l'impugnatura del pugnale, giurava di essere fedele a tutti gli affiliati alla Società dei picciotti, di prestar loro appoggio e braccio forte di difesa sino all'ultimo sangue; di coadiuvare i soci nei furti e delitti. Di presentare esattamente quanto riusciva di rubare, onde dividerlo con gli altri compagni centesimo per centesimo. Di fregiare ovvero uccidere secondo la circostanza speciali secondo le deliberazioni dei capi dell'associazione tanto le spie quanto coloro che ostacolavano la setta.

Dopo ciò veniva confermato col bacio, che tutti i soci presenti gli dovevano. Per distinzione di grado veniva baciato due volte dai sottocapi. In eseguito poi venivano essi affidati al picciotto di sgarro quale maestro nei dritti e doveri che i soci avevano. Furono visti addestrarsi fra loro nelle diverse contrade Oppolese, Cerasolo, fiume Bagni,Villa Ferruzza, Anzaro e Cantagalli ove tenevano parimente delle riunioni. Nè trascuravano l'esercizio della scherma persino dentro le carceri del loro Mandamento di Sambiase dove,quando supponevano di non essere visti tiravano la scherma con pezzi di legno fatti a forma di coltelli. Avvolte per qualche malcapitato che transitava per quelle contrade si intimava la "guazza" ( così nel gergo degli affiliati era intesa la mancia o camorra pretesa)

I riti e le cerimonie non si svolgono solo quando c'è l'ingresso di un nuovo associato. Una particolare cerimonia è prevista anche quando qualcuno "passa di grado", quando, per le azioni commesse, la società riconosce, in modo solenne, di fronte a tutti gli associati i suoi meriti.

Il passaggio da un grado ad un altro avveniva dopo che erano stati compiuti atti di sangue, dopo un omicidio o anche dopo uno sfregio commesso dietro ordine della 'ndrina. A Sambiase il passaggio da picciotto a camorrista avveniva dopo uno sfregio. "I picciotti che davano prova di coraggio, specialmente nella perpetrazione degli sfregi per comando della società, erano elevati a camorristi d'onore". In altri realtà calabresi erano anche previste "forme solenni per l'ammissione e la promozione ai gradi superiori". Per la nomina a camorrista "occorreva che il candidato avesse ferito un altro camorrista e succhiato il suo sangue". Era rispettata, dunque, una delle norme dal chiaro significato simbolico, contenute nei codici, che prevedeva il passaggio dal grado di camorrista di sangue a quello di sgarro dopo una sorta di "duello rusticano" nel corso del quale il camorrista che voleva scalare la gerarchia 'ndranghetista doveva incontrare un camorrista di sangue e colpirlo tre volte.

Sappiamo che la sua vita di relazione spesso si svolgeva nelle bettole. La bettola costituiva un punto di incontro, un centro di raccolta per gli uomini. Si chiacchierava, si facevano affari, ci si scambiava notizie e informazioni, si passava il tempo giocando a carte. La bettola costituiva per i ceti subalterni quello che la farmacia rappresentava per la piccola borghesia intellettuale di paese: il luogo abituale ove ritrovarsi e frequentarsi. Erano i poli opposti che segnavano una differenza sociale e di classe.
Il gioco delle carte rappresentava non soltanto un momento di divertimento, ma anche un mezzo per mostrare la propria bravura, la propria superiorità. In particolare il gioco di "padruni e sutta", altrimenti detto della "passatella", si prestava a questa finalità rappresentando una micidiale miscela che sommava insieme questi molteplici elementi. Il gioco era davvero micidiale: uno dei partecipanti, a sorte, faceva il "padrone" e stabiliva - in rapporto dialettico con il "sotto" e attraverso un complesso sistema di regole, di procedure, di alleanze, di gesti simbolici, di parole a doppio senso e allusive - chi dovesse bere. Capitava così che alcuni giocatori terminassero le partite senza aver bevuto. Erano lasciati, come si dice, "all'urmi".

L'esclusione bruciava, ancor più se a rimanere all'olmo era uno solo, e tanto più che - protraendosi a volte per delle ore - la esclusione avveniva in presenza non solo dei giocatori, ma spesso di una folla di avventori che, come d'abitudine, facevano ruota attorno ai giocatori. Una folla anch'essa partecipe con lazzi, dileggi o anche, quando l'atmosfera era carica di tensione, con silenzi e sguardi eloquenti. C'è un modo di parlare anche stando in silenzio. Le parole sarebbero venute dopo, a gioco finito. Non erano infrequenti, quindi, le liti, le risse, i ferimenti che si svolgevano entro le mura della bettola o, più spesso, fuori, dove, al riparo da occhi indiscreti, si consumavano omicidi o si sfregiavano gli avversari. Il vino bevuto era solo in piccola parte responsabile di quanto accadeva.
In realtà il motivo prevalente, quando fra i giocatori vi erano degli affiliati alla 'ndrangheta, era l'offesa ricevuta, la mancanza di rispetto nei confronti dello 'ndranghetista, la messa in discussione del suo prestigio. Due picciotti, "rimasti una volta all'olmo", reagiscono per "l'affronto ricevuto" scrivono in sentenza i giudici della Corte di appello che si occupano nel 1901 delle 'ndrine di Sambiase, Gizzeria e Platania.

La reazione dei picciotti è abituale e, frequente, si verifica dappertutto. Non ci si deve meravigliare, poiché il gioco appena descritto è "una delle forme di rappresentazione simbolica" e di conseguenza uno dei luoghi simbolici dove il picciotto e il camorrista dovevano riaffermare, dinnanzi a tutti, il loro ruolo e la loro appartenenza all'organizzazione.

Una molteplicità di luoghi, dunque. E, di conseguenza, una molteplicità di imprese, di azioni criminali che non sarà possibile ricostruire tutte per intero. Troveremo, invece, una varietà di professioni e di figure sociali che costituiscono il nerbo delle famiglie mafiose. Incontreremo non solo contadini, braccianti, pastori, caprai, bovari, guardiani, mulattieri, ma anche una folla di artigiani, calzolai, muratori, falegnami, sarti, merciaiuoli, barbieri, cocchieri, macellai, vetturali, fabbri; e ancora: possidenti, popolo minuto delle città, figure del ceto medio cittadino.

Ci sono poi i giovani - molti giovani e giovanissimi - che popolano e affollano i processi, che arrivano, dinanzi al tribunale e alla Corte di appello per rispondere dell'imputazione di associazione per delinquere, avendo spesso un notevole fardello di condanne per precedenti reati, i più svariati.

A partire dagli anni Ottanta dell'Ottocento fino al primo decennio del nuovo secolo, in generale la magistratura parve dispiegare una notevole capacità repressiva nei confronti delle 'ndrine, giudicò e condannò severamente, affrontò senza eccessive indulgenze le associazioni a delinquere; con una particolarità di fondo: furono represse le manifestazioni più violente e delinquenziali, ma non si intaccarono gli assetti di potere locale o politico. Oltre questa soglia l'azione dei magistrati si inceppò.
Né mancò, in certi casi, l'uso di metodi energici e coercitivi per convincere gli 'ndranghetisti a parlare. Le accuse rivolte nei confronti della polizia e dei carabinieri sono frequenti in alcuni processi: in quello a carico delle 'ndrine di Sambiase, Gizzeria e Platania; di Nicastro, Bella e Sambiase. C'è da credere a queste accuse? La Corte mostrò sempre di ritenere queste accuse del tutto prive di fondamento. E tuttavia non è da escludere che in determinati casi siano stati usati metodi poco ortodossi e perfino violenti nei confronti degli arrestati. E non sempre ci sarà la violenza fisica, che lascia comunque delle tracce, ci sarà anche, molto importante, quella psicologica.
Dalle risultanze processuali e dai frequenti richiami che in esse e possibile rilevare circa il comportamento dei carabinieri, ci sembra di intuire che i metodi usati da carabinieri e poliziotti non può dirsi che siano stati sempre improntati a correttezza e rispetto nei confronti degli arrestati. Al momento dell'arresto è del tutto possibile che metodi bruschi, rudi, per non dire violenti, erano considerati, da parte di chi procedeva al fermo, un valido ausilio per far parlare l'arrestato. La cosa non deve sorprendere data la cultura circolante in quel tempo fra le forze dell'ordine.

Quest'azione repressiva di una certa consistenza rimase, però, isolata e non fu mai accompagnata da misure di carattere economico, sociale, culturale in grado di affrontare i nodi strutturali sui quali era sorta e prosperava la 'ndrangheta. L'impressione è che il fenomeno fu seriamente sottovalutato e non compreso adeguatamente in tutta la sua dirompente carica di novità. Prevalse una cultura da "guardie e ladri"; quasi si trattasse di uno scontro tra carabinieri e giovinastri che rubavano. Non a caso tutte le 'ndrine erano accusate di furti sulla base di prove indiziarie. Mancò da parte del potere politico, locale e nazionale, da parte del governo, un'indicazione diversa da quella repressiva, e non ci fu una politica tesa a rimuovere il complesso delle cause che stavano a fondamento del fenomeno.

Eppure molti processi avevano messo in luce non solo gli aspetti criminali e delinquenziali, ma avevano individuato la complessità sociale e culturale di quelle associazioni a delinquere, avevano indicato le interferenze che si manifestavano sul terreno del funzionamento della giustizia e dei meccanismi economici. Erano spunti, indicazioni, intuizioni preziose che non furono raccolte e comprese. E ci fu anche chi, avendole comprese, pensò di poterle utilizzare per i propri scopi. E così che si manifesteranno e si salderanno i primi intrecci tra 'ndrangheta e potere locale, tra malavita e politica, successivamente sempre più estesi. Il dato prevalente per questo periodo è un altro: il confitto fra guardie e ladri, inteso come dimensione culturalmente dominante per fronteggiare la 'ndrangheta. Non a caso mancarono - e l'assenza durò a lungo - di intellettuali in grado di analizzare e denunciare il fenomeno. Se il gioco era tra "guardie e ladri", per gli intellettuali (evidentemente) non c'era posto.

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1) L'articolo è tratto in prevalenza dal libro" 'Ndrangheta dall'Unità a oggi", di Enzo Ciconte, Editori Laterza,1992 - Altre notizie sono state tratte presso l'Archivio di Stato di Catanzaro - Fondo Sentenze Penali (Gierre)
1: Maione Nicola +68, v. 150, 15 dicembre 1896;
2: Pizzonia Francesco +30, v. 366, 2 agosto 1897;
3: Rocca Francesco v. 374, 12 novembre 1898;
4: Amantea Francesco +62,v. 390, 4 giugno 1901