Breve storia della Calabria - parte II^

di Mario Caligiuri

Rivolta continua

Quando, nel 1442, Alfonso I entrò solennemente a Napoli, sapeva poco della Calabria. Molto presto però ebbe modo di comprende che possedere nella lontana regione equivaleva a controllare tutto il Regno. Il nuovo sovrano, detto il Magnanimo, per la sua politica tollerante e accorta, si rese subito conto che non poteva contrapporsi allo strapotere baronale, particolarmente forte in Calabria, e quindi preferì adottare una politica di compromesso.

Questo gli consentì di consolidarsi, premiando chi lo aveva sostenuto e penalizzando gli altri. Nominò viceré di Calabria Antonio Centelles, che gli aveva reso particolari servigi, ma che più che al sovrano era fedele a sé stesso. Lo dimostrò allorquando Alfonso lo incaricò di concludere il matrimonio tra Innico de Avalos, nobile castigliano che per la sua fede aragonese aveva perso tutti i beni in patria, e la bella Enrichetta Ruffo, ultima erede dei ricchi feudi dei conti di Catanzaro. Il matrimonio riuscì a concluderlo, ma fu lui che, secondo il costume del tempo, prese possesso sia di Enrichetta che delle sue terre. Alfonso sulle prime si adirò, poi, visto che stava montando una sollevazione nelle Calabrie ai suoi danni ed anche per non smentire il suo appellativo, perdonò Centelles. Ma nel 1458, dopo che la sua corte era diventata splendida come quella del Magnifico a Firenze, Alfonso I morì. Nel Mezzogiorno continentale gli succede Ferrante, che però era un figlio illegittimo. Questa circostanza diede l'ennesima opportunità ai baroni di contestare il potere del re, con ciò seguendo un collaudato copione. Scrive infatti Giuseppe Galasso: «Il pretesto della sempre rinascente opposizione dei baroni alla Corona era l'apparizione di un pretendente forestiero o uscito dalla stessa casa reale; e quando l'apparizione non era spontanea la si provocava ad arte».

La classe baronale meridionale confermava, come altrove, la difesa esclusiva dei propri privilegi, l'assenza di ogni ideale politico, il totale disinteresse verso il consenso popolare, la tensione costante con gli altri feudatari e con il re, la capacità di destabilizzare sommata all'incapacità di costruire. Caratteristiche accentuate nei territori lontani dalla capitale. E le province più distanti erano quelle delle Calabrie. Ancora una volta Centelles si distinse nell'ordire congiure contro gli Aragonesi. In questo fu favorito da un diffuso malcontento popolare, causato soprattutto da una forte pressione fiscale. L'intera regione nel 1459 prese fuoco, coinvolgendo feudatari riottosi, plebi inferocite e comunità deluse. Si trovarono insieme per la prima volta, ma con bisogni tanto diversi, i principi di Rossano ed i villani di Zagarise, i conti di Catanzaro ed i contadini dei casali cosentini. E i primi strumentalizzarono i secondi. Impressionato dalla vastità delle sollevazioni, Ferrante mandò in Calabria le truppe regie sotto il comando di Alfonso de Avalos, ma la bufera non si placò. Scese egli stesso in quelle riottose province, ma la tempesta non diminuì. Inviò allora Maso Barrese che con inaudita ferocia stroncò la rivolta, a furia di massacri, tra i quali quelli di Acri e della Roccelletta. Nel frattempo, si era inserito il tentativo di Giovanni d'Angiò di riconquistare il regno, che naufragò con la sconfitta di Troia nel 1462. Ci fu poi un ventennio di relativa tranquillità, fino al 1485 quando scoppiò, sostenuta anche da Innocenzo VIII, la congiura dei baroni napoletani, che Ferrante risolse con uno stratagemma. Invitò nel 1486 tutti i contestatori al Maschio Angioino e li fece arrestare in quella che ancora oggi è indicata come "Sala dei baroni". Tra questi c'erano il principe di Bisignano ed il conte di Mileto, entrambi della famiglia Sanseverino, in rappresentanza di una regione ancora in rivolta. Domata la congiura, gli Aragonesi frantumarono i grandi feudi, assegnarono le terre a dignitari fedeli, spodestarono chi aveva tradito, crearono e confermarono nuove città demaniali tanto che il loro numero per la prima volta superò quello dei feudi. Ricostituirono i demani ed in primo luogo quello silano per frenare le cause delle rivolte dei contadini dei casali.

Si registrò una timida rinascita economica, con un accresciuto traffico nei porti e con una ripresa dell'artigianato. Allora Catanzaro era un prestigioso centro di lavorazione delle lane, delle sete e dei velluti, tanto che nel 1470 gli artigiani catanzaresiandarono a Tours, in Francia, per insegnare quest'arte. Collegata c'era una florida attività commerciale, che smerciava alla fiera di primavera a Reggio tessuti e damaschi a mercanti spagnoli, veneziani e fiamminghi. A sostegno di queste iniziative, c'era una colonia di ebrei, ritornata a Catanzaro con l'avvento degli Aragonesi. Ma la vitalità economica e civile durò solo qualche anno, sebbene fosse stata promulgata nel 1483 la Prammatica del Re Ferrante d'Aragona, che Croce definì la Magna Charta della società meridionale del Rinascimento.

Nel 1494 morì Ferrante e gli successe il figlio Alfonso II, e nello stesso anno il re di Francia Carlo VIII entrò in guerra per riconquistare il Mezzogiorno. A soccorso degli Aragonesi si schierò la Spagna ed il Sud diventò un immenso teatro di guerra. Prevalsero gli opportunismi ed il carro del vincitore si dimostrerà come sempre quello più affollato. Nacque proprio allora l'affermazione, insieme rassegnata e disincantata: «Franza o Spagna, purché se magna». Dopo alterne vicende, con la battaglia di Seminara del 1503 gli Spagnoli, guidati da Ferdinando de Andrada, conquistarono la Calabria e tutto il Regno di Napoli. Vi restarono per oltre due secoli. Per circa settanta anni di dominazione Aragonese, la Calabria registrò avvenimenti e testimonianze molto significativi. Si muoveva sulla scena un personaggio eccezionale: Francesco di Paola. Nato nel 1416, fondò il primo nucleo dell'ordine poi detto dei minimi nel 1435, l'anno della presa del potere degli Aragonesi. Predicatore dell'umiltà e della povertà, in un'epoca in cui la Chiesa dava all'umanità pontefici come Alessandro Borgia, si attribuiscono a lui guarigioni inspiegabili, predizioni avverate, avvenimenti sovrannaturali e innumerevoli miracoli, come quello dell'attraversamento dello Stretto di Messina sul suo mantello nel 1464. Animato da una grande giustizia sociale, ebbe un larghissimo seguito popolare, guardato nello stesso tempo con ammirazione e sospetto dalla gerarchia e dai potenti. Dopo avere fondato i conventi di Paterno e di Paola, venne chiamato in Francia dal re Luigi XI, gravemente ammalato. Nel 1483 partì per la corte francese e si imbarcò da Napoli dove ricevette un'accoglienza straordinaria anche da parte del re Ferrante e dalla regina Isabella. Arrivato in Francia non ritornò più e lì restò fino alla morte, avvenuta nel 1507. Venne proclamato Santo da Leone X con la Bolla Excelsus Dominus del 1519. Sempre in questo periodo, un leggendario condottiero albanese, Giorgio Castriota Skandeberg, si pose al servizio di Ferrante d'Aragona, portando con se molti compatrioti in fuga dalla terra natale, occupata dai Turchi. Fu il primo nucleo che si irradiò in una cinquantina di insediamenti, che ancora oggi persistono, soprattutto in provincia di Cosenza. Cattolici di rito ortodosso, gli Albanesi hanno sempre avuto con i calabresi rapporti cordiali e ancora oggi mantengono la lingua, le tradizioni ed i riti religiosi, tanto è vero che a Lungro c'è un'Eparchia , cioè un vescovato dei cattolici di rito greco, mentre può essere considerata la loro capitale S. Demetrio Corone, dove nel 1791 fu creato il Collegio italo-greco per gli studenti di lingua albanese. Dopo quella tedesca dell'Alto Adige, gli Albanesi di Calabria sono la seconda minoranza etnica più numerosa d'Italia.

Di quel periodo sono i rimaneggiamenti dei Castelli di Pizzo e di Reggio e del suggestivo complesso di Le Castella a Isola Capo Rizzuto, la costruzione del maniero Siscara ad Ajello Calabro e il rifacimento del rocca di S. Severina oltre che il formidabile castello di Corigliano. Cominciarono a sorgere bellissimi palazzi nobiliari nei centri più importanti della regione. A Cosenza, Altomonte, Morano, Cropani, Amantea, per dire solo di alcuni, si intervenne negli edifici ecclesiastici e conventuali. Nel 1475 grazie ad un ebreo, Abraham ben Garton, fu introdotta la stampa in Calabria. Infatti, in quell'anno venne pubblicato il Pentateuco in lingua ebraica. Ed è proprio alla fine del Quattrocento che i Valentini di Reggio acquistarono da un moro creolo per 18 scudi un'essenza che proveniva dalle Americhe. Così giunse, tra storia e leggenda, il bergamotto in Calabria. Pianta unica al mondo, che cresce solo in alcune ristrette zone del reggino, rappresenta l'ingrediente fondamentale dell'acqua di colonia. Oggi costituisce una risorsa preziosa per la Calabria, sebbene l'Istituto mondiale del bergamotto abbia sede a Parigi.

Dove nascono le idee

Non appena arrivarono, gli Spagnoli si posero l'obiettivo di domare i baroni, che «con vari ed onorevoli richiami», fecero trasferire in gran parte a Napoli. Fu una mossa accorta, poiché concentrandoli nella capitale essi erano da una parte maggiormente controllabili e dall'altra venivano coinvolti nella giostra del potere. Per le province anche questo aspetto non poteva che portare esiti negativi. In quei tempi, un viaggio per strada da Napoli a Cosenza durava una diecina di giorni, mentre a Reggio era preferibile arrivarci via mare, perché il tragitto richiedeva "solo" una settimana. Pertanto, i baroni risiedevano a Napoli, dove costruivano palazzi bellissimi che ancora oggi si possono ammirare. Sono di quel periodo il Palazzo della Rocca, edificato dal principe di Bisignano, ed il Palazzo Carafa a Pizzofalcone, fatto costruire da Andrea Carafa, conte di S. Severina. A Napoli, i nobili ricoprivano alti incarichi pubblici, lasciando i feudi in mano ad agenti e notai locali, molto spesso più esosi dei proprietari. Per reperire nuove entrate, come veniva richiesto da Madrid, si verificò una nuova reinfeudazione, cioè una riassegnazione dei feudi. Alla fine del Cinquecento, quasi tutte le comunità calabresi risultarono infeudate: 312 su 326. Restava solo qualche città, che dipendeva direttamente dalla Corona. Gran parte dei feudatari di nuovo conio, in Calabria come in tutto il viceregno, sfruttarono in modo rapace i terreni di cui erano entrati in possesso. Il fiscalismo spagnolo fu rozzo, come dovunque, e le condizioni delle plebi erano miserabili. Appunto per questo le sollevazioni furono numerose, sempre sedate nel sangue. Anche in Calabria giunse l'eco della rivolta di Masaniello del 1647, che interessò solo le città demaniali, non coinvolgendo le masse contadine.

In quegli anni, un sacerdote di Francica, Gabriele Barrio, pubblicò un libro sulla Calabria destinato ad influenzare per alcuni secoli gli studiosi e l'opinione pubblica. Il testo aveva per titolo Antichità e luoghi della Calabria. Scritto in latino, venne pubblicato a Roma nel 1571. Alla fine del libro primo, dopo aver ampiamente decantato la storia ed i miti della sua terra, Barrio accennò in una quarantina di righe al Calabriae planctus, al pianto della Calabria. In esso, si parlò dell'insostenibile imposizione fiscale e delle angherie dei potenti locali che «saccheggiano e scorticano». Condizione comune non solo a gran parte del Mezzogiorno, ma a tutta l'Europa. I nobili, e soprattutto i loro delegati, per aumentare le entrate, violavano gli statuti concessi alle città e i privilegi accordati per le terre demaniali, angariando la povera gente che invece aveva il diritto di coltivarle. A queste violenze dell'uomo si sommarono quelle della natura: terremoti ed inondazioni, pesti e carestie, inverni rigidissimi ed epidemie interessarono ripetutamente la Calabria. E fu proprio in occasione della peste del 1576 che Cosenza venne protetta dalla Madonna del Pilerio, che subito dopo divenne la protettrice della città. E come se non bastasse, per tutto il viceregno spagnolo, le coste calabresi furono interessate dalla controffensiva turca contro la Spagna. Fenomeno pericolosissimo che investiva tutto il viceregno, tanto che a metà del Cinquecento il sultano Solimeo II aveva schierato la sua flotta nel golfo di Napoli, ritirandosi solo dopo aver ricevuto una forte somma di denaro. E non è un caso che, secondo la tradizione, una delle prime canzoni napoletane sia di quel periodo e si chiami Michelammà, che era l'esclamazione delle donne in fuga alla vista delle galere turche nelle acque di Posillipo. La Calabria, riacquistando il ruolo di baluardo anti-islamico che aveva avuto durante il periodo bizantino, venne munita di 114 robuste torri, rafforzandone alcune preesistenti, abbandonandone altre e costruendone di nuove. Questo sistema difensivo attenuò ma non risolse il problema. Le scorrerie continuarono, interessando di nuovo anche la capitale, dove nel 1563 i turchi assaltarono il Palazzo Reale, guidati proprio da un calabrese che aveva cambiato fronte: Ulug Alì, detto Occhialì. Infatti, il fenomeno dei rinnegati, cioè di coloro che abbandonavano la fede cristiana per abbracciare quella islamica, era quanto mai diffuso soprattutto in quel periodo. Per molti era un modo di sfuggire alla povertà, per altri anche un'opportunità unica di promozione sociale. Achille Riggio ha acutamente scritto, dimenticando però tutti coloro i quali restavano schiavi fino alla morte, che «la corsa barbaresca, per la Calabria, aveva assunto l'autentica forma di una guerra di classe. Servi del feudo aspettavano sulle marine il passaggio di navi corsare per farsi imbarcare». L'ambasciatore veneto Paolo Contarini narrava che nel 1583 a Costantinopoli, c'era un «grossissimo casale» chiamato Calabria nuova in cui vivevano molti emigrati che provenivano volontariamente dalla regione, professando liberamente la religione cristiana. Ma i rinnegati più famosi, avvolti da un alone di leggenda, furono il già citato Occhialì, pascià alla corte di Costantinopoli, l'ammiraglio Scipione Sinan Cigala dell'omonima nobile famiglia di Tiriolo, Sidi Mustafà, che fu un'alto dignitario a Tunisi e Hossein Kapodan, che lo divenne a Tripoli. Di fatto, le incursioni erano il prodotto genuino della risposta turca alla politica spagnola ed erano tese, più che a conquistare, a fiaccare gli animi e a depredare le ricchezze dei cristiani. A nulla era valsa per la Calabria la vittoria di Lepanto del 1571, dove le flotte cristiane avevano annientato quelle turche e dove combatterono gentiluomini calabresi come Gaspare Toraldo, Cesare Galluppi e Giovan Tommaso di Francia. Ma in quasi tutta l'Europa del Cinquecento il disordine era la regola. Il malessere sociale era talmente avvertito che torme di contadini si diedero alla macchia anche in Calabria. Episodi di banditismo, che accentuavano un fenomeno sempre più o meno presente, si registravano un po' ovunque, ma l'episodio più famoso fu quello di Marco Berardi, detto Re Marcone, che ai primi del Cinquecento, si era insediato nei pressi di Crotone, da dove fu scacciato, dopo quasi un anno, solo con un'operazione militare in piena regola. Ma i baroni riuscivano ad utilizzare a loro favore anche questa situazione. Infatti, l'illuminato viceré don Pedro da Toledo riferiva in una relazione del 1536, che molti banditi provenienti dalla Sicilia erano stati assoldati, come i bravi di manzoniana memoria, dai nobili del luogo che li utilizzavano come piccolo esercito personale. E c'è chi fa risalire al periodo della dominazione spagnola le origini della mafia in Sicilia e della camorra a Napoli. Ed è proprio ora che si accentua un problema che sarà destinato a condizionare per secoli l'economia e la società della regione. Con la complicità degli amministratori locali e quasi sempre anche dei funzionari della Corona, i baroni si erano impossessati di quasi tutti gli "usi civici" dei comuni, che, come ricordato, erano quei terreni di proprietà collettiva adibiti a pascoli e a boschi, a cui attingevano le classi meno abbienti per sopravvivere. L'usurpazione fu più rilevante nell'altipiano silano, dove i beni soggetti agli usi civici, si estendevano per quasi centomila ettari. In un centinaio d'anni, i baroni eressero "difese", cioè proprietà abusive. Da qui liti infinite e complicatissime, che iniziarono nel 1534 e dopo essersi parzialmente definite, ad esclusivo vantaggio dei baroni nel 1687, vennero riprese nel 1752, sotto i Borbone. I nobili, nonostante imbastissero contese, erano in tutto il viceregno sommersi di debiti. La cattiva gestione, dovuta soprattutto a disonesti amministratori dei feudi, la dispendiosa vita di rappresentanza condotta nella capitale, la crisi finanziaria che coinvolse l'impero spagnolo dopo la conquista delle Americhe (la famosa "maledizione dell'oro") creò gravi problemi alle maggiori famiglie calabresi, che furono costrette a disfarsi di molti possedimenti e tanti feudi cambiarono mano. E quasi tutti andarono in quelle di mercanti, spesso genovesi, e di ex amministratori dei loro stessi feudi, che nel frattempo avevano accumulato ingenti ricchezze. Ma una volta praticamente entrati a far parte della nobiltà (con il feudo era collegato anche il titolo nobiliare), i nuovi arrivati acquisivano presto le mentalità ed i modelli dell'aristocrazia. Il fenomeno non era esclusivo del viceregno di Napoli, tanto che il grande Fernand Braudel lo avrebbe definito «il tradimento della borghesia». In quella che Tomasi di Lampedusa, individuando un fenomeno costante nelle vicende degli uomini, più tardi ironicamente chiamò «trasmigrazione di rondini», rimasero coinvolti tanti pari di Calabria: i Sanseverino, i Carafa, i Pignatelli. Una delle poche, ma significative eccezioni fu quella rappresentata dai Ruffo, principi di Scilla. Attraverso un'oculata gestione diretta dei feudi ed investimenti soprattutto nell'industria della seta, essi riuscirono ad accumulare ingenti capitali che investirono nell'ampliare i propri possedimenti, rendendoli sempre di più produttivi.

Ma nonostante tutte le difficoltà, poste in essere anche dalla protervia dei baroni, in Calabria si producevano vino e olio, si lavoravano la seta e la lana. Catanzaro, che era una tradizionale e famosa sede artigiana, intorno al 1520 contava oltre 500 telai. I porti più sviluppati erano quelli di Crotone e di Reggio, ma i commerci erano in mano a forestieri, soprattutto genovesi e fiorentini, che ben presto svilupparono anche altre attività economiche, come quelle dei prestiti, della gestione amministrativa di un territorio oppure la costituzione di società per l'esportazione della seta. Infatti troviamo i nomi dei più importanti mercanti del tempo: dagli Strozzi ai Bandini ai Ravaschieri. Inoltre il senese Vincenzo Salviati acquistò i Casali cosentini nel 1644 per 204.000 ducati, costituendo il suo feudo personale. Ma un apporto importantissimo ai commerci lo stavano dando anche gli ebrei che si erano insediati nella regione e che erano presenti in Calabria fin dall'età sveva. Infatti, alla fine del Cinquecento, la loro presenza era stimata in circa 600 unità, stabilite soprattutto nelle città demaniali, nelle quali avevano dato un grosso impulso alle attività economiche. Con l'avvento degli Spagnoli, però, la musica cambiò. Gli ebrei, anche su sollecitazione dei mercanti genovesi, vennero prima perseguitati e quindi espulsi definitivamente dalla Calabria. Le loro ricchezze furono quasi tutte confiscate dal Cattolicissimo sovrano di Spagna. Erano gli anni oscuri dell'Inquisizione, che a Napoli non venne mai ufficialmente introdotta, anche a causa delle sollevazioni popolari come quella del 1547, che ebbe come protagonista Tommaso Aniello.

Ma l'Inquisizione lasciò lo stesso segni indelebili in Calabria: la persecuzione dei valdesi e la carcerazione di Tommaso Campanella. Alcuni seguaci del monaco Pietro Valdo, scomunicato dal Sinodo di Verona del 1184, abitanti delle valli poste tra la Liguria ed il Piemonte, per sfuggire alle persecuzioni si trasferirono nella lontana Calabria. Questo avvenne sotto la dominazione angioina ed i valdesi vennero accettati dai feudatari del luogo, che diedero loro protezione e terre da coltivare. Mantenendo le tradizioni e la fede dei padri, si insediarono, tra la tolleranza dei calabresi, a Montalto e quindi nelle valli circostanti. Nel 1532 i valdesi aderirono alla Riforma protestante e quindi si attirarono i fulmini dell'Inquisizione. In Calabria, tra il 1560 ed il 1561 essi vennero perseguitati, uccisi, deportati, su ordine del Cardinale Ghisleri, futuro Pio V. I loro campi ed i loro villaggi furono devastati. A S. Sisto le case furono bruciate e con cani addestrati in America contro gli Indios i fuggitivi vennero braccati. A Montalto il boia in una diecina di giorni ne sgozzò duemila, mentre a Guardia Piemontese furono squartati vivi a centinaia. I superstiti, atterriti, furono ricondotti all'obbedienza della Santa Romana Chiesa. Ancora oggi a Guardia Piemontese, oltre al dialetto ed ai costumi, c'è la Porta del Sangue, che ricorda il massacro perpetrato dai sacri inquisitori e testimonia uno dei pochi monumenti della lotta per la libertà religiosa in Italia.

Un quarantennio dopo, nel 1599, frate Tommaso Campanella da Stilo fu imprigionato nelle galere del S. Uffizio di Roma. Egli cercò di fingersi pazzo per scampare alle persecuzioni, ma venne lo stesso torturato con la corda e poi sottoposto al supplizio della veglia. Quasi morente, tenne testa agli inquisitori, non rivelando complici né ammettendo eresie. E rimase in prigione per una trentina d'anni. Il frate domenicano si trovava in quella condizione perché un anno prima aveva cercato di ordine un'utopica congiura in Calabria, dove povertà e rivolte, malgoverno e disastri si combinavano in una miscela esplosiva. Campanella, che aveva studiato appassionatamente Telesio e Galileo, e a Napoli si era occupato di occultismo e di scienze divinatorie, aveva pubblicato nel 1591 il libro Philosophia sensibus demonstrata, in cui esponeva le idee per le quali fu processato, subendo per la prima volta la prigione. Costretto a ritornare in Calabria, le condizioni sociali della sua gente lo indussero a tentare di realizzare quella che lui riteneva la migliore forma di governo, in cui i cittadini vivevano in armonia senza preoccupazioni materiali sotto la guida della filosofia. Che è quanto poi illustrò in quel libro, scritto in prigione, che è uno dei capolavori dell'umanità, La Città del Sole, che contribuì in modo determinante a farlo conoscere dovunque. In base ad una serie di previsioni astrologiche, Campanella stabilì per l'estate del 1599 l'avvio della congiura. Lo sostenevano idealisti e persone poco raccomandabili. Si attendeva anche l'aiuto di Cigala, il rinnegato diventato ammiraglio delle flotte turche. Venne tradito e a nome del viceré interviene Carlo Spinelli, principe di Cariati, che stroncò la congiura. In effetti, la rivolta, generosa e impossibile, non poteva che fallire. Comunque il frate domenicano era riuscito ad accendere un faro dalla sua terra. Ha scritto, infatti, Luigi Firpo: «Tra scettici, epicurei, atei, libertini, empirici, settari d'ogni colore, Campanella porta per tutta l'Europa un messaggio che viene davvero dalla sua terra remota: la sete di assoluto, l'aspirazione ad una sintesi universale di tutto il sapere divino e terreno».

Nel periodo del vicereame spagnolo si registrarono in Calabria altissime testimonianze di arte e di pensiero. A cominciare da Bernardino Telesio, di cui aveva tessuto le lodi Giordano Bruno considerandolo «il primo degli uomini nuovi». Egli fu un filosofo innovatore che ebbe il coraggio di contestare la dominante filosofia di Aristotele: «i fenomeni della natura», aveva invece sostenuto, «si spiegano attraverso la scienza e non per categorie astratte». Concetti davvero rivoluzionari, se si pensa che subito dopo Galileo venne condannato dalla Chiesa perché aveva osato dimostrare che la terra girava intorno al sole. Di famiglia aristocratica, colto e raffinato, aveva studiato presso l'Accademia Cosentina e dopo aver approfondito le conoscenze presso l'Università di Padova aveva vissuto a Roma e Napoli, frequentando quella che oggi chiameremmo l'alta società. Riflessivo, sensibile senza alcun senso pratico, aveva rifiutato di fare il vescovo di Cosenza a favore del fratello Tommaso. Per trent'anni meditò la sua filosofia e solo dopo averla confrontata con uno dei più colti seguaci dell'aristotelismo del tempo, il bresciano Vincenzo Maggi, si decise a pubblicare nel 1565 il De Rerum natura, che capovolse le concezioni filosofiche allora esistenti. Sovversivo per la cultura ufficiale del tempo, gli scritti di Telesio lo furono anche per la Chiesa che li inserì, nel 1596, otto anni dopo la morte del filosofo cosentino, nell'Indice dei Libri Proibiti, sebbene donc expungentur, la formula che significava «finché non vengano rimossi gli errori».

Bernardino Telesio fu il più prestigioso ma non certo l'unico esponente di quello che è stato definito il Rinascimento calabrese. Infatti, all'inizio del XVI secolo Aulo Giano Parrasio, secondo molti «il più illuminato umanista ed il critico più geniale del suo tempo», fondò a Cosenza l'Accademia che da lui divenne Parrasiana, quindi Telesiana ed infine Cosentina. L'Accademia ha rappresentato per secoli una palestra di idee, che non a caso fin dall'inizio era contrastata dai gesuiti, portatori della verità rivelata contro chi invece era alla ricerca della verità ed affermava che la libertà del pensiero «è lo seme buttato da Cristo ne lo mondo nostro». Altro grande umanista è Guglielmo Sirleto di Guardavalle, definito da Pio XI «uno degli uomini più influenti nelle grandi correnti di idee e dei fatti che agitarono il suo tempo». Di vastissima erudizione, collaborò attivamente al Concilio di Trento. Divenne cardinale nel 1565, l'anno dopo Vescovo di S. Marco Argentano e nel 1568 venne destinato a Squillace. "Poeta maledetto" ante-litteram era Galeazzo di Tarsia, della famiglia dei signori di Belmonte, che venne ucciso nel 1553, poco più che trentenne. I suoi versi, raggruppati in meno di una quarantina di componimenti di altissima qualità, vennero pubblicati ai primi del Seicento. Così come è da ricordare Luigi Lilio, al quale si deve l'entrata in vigore, il 4 ottobre del 1582 del calendario gregoriano. Lilio, essendo morto nel 1576, non ebbe modo di accorgersene, ma i calcoli matematici e astronomici che egli aveva compiuto consentirono la correzione del calendario. Dell'opera di Gabriele Barrio si è già detto; rappresentò un punto di riferimento obbligato per gli studiosi, ai quali, dice la leggenda, il frate di Francica avrebbe indirizzato le sue maledizioni, anche postume, se avessero tradotto il suo libro in italiano: lingua che egli odiava. Gregorio Caloprese di Scalea fu tra gli insegnanti di filosofia e letteratura di Metastasio, mentre Gianvincenzo Gravina di Roggiano fu il fondatore dell'"Accademia dell'Arcadia". Infine, fu il cosentino Antonio Serra a dare basi scientifiche in Italia all'economia politica come scienza sociale.

Uno dei più grandi pittori del Seicento fu proprio il calabrese Mattia Preti. Nato a Taverna nel 1613, visse a Roma, Napoli e soprattutto a Malta dove diventò Cavaliere del Santo Sepolcro. Legatissimo alla patria d'origine, provvide sistematicamente nel corso degli anni a inviare suoi dipinti alle chiese di Taverna, dove ancora oggi si possono ammirare la Madonna della Purità, il S. Giovanni Battista, il Cristo fulminante e S. Domenico, il S. Sebastiano e la Crocifissione. Questo suo attaccamento ha indotto Vittorio Sgarbi a commentare: «Non è frequente che gli artisti lascino più che testimonianze giovanili nel luogo che li ha visti nascere, se questo non sia una capitale o il centro di una civiltà. Vano è cercare un Leonardo a Vinci, un Michelangelo a Caprese, un Caravaggio a Caravaggio, perfino un Raffaello ad Urbino. E' quindi con un certo stupore che troviamo tante opere di un artista di primissima grandezza, inviate alle chiese di un piccolo paese calabro, Taverna». Vere opere d'arte sono i damaschi e i velluti creati dai maestri artigiani di Catanzaro, che daranno notorietà alla città in tutta l'Europa e il cui ricordo è oggi quasi completamente sparito. A Tropea c'era una rinomata scuola chirurgica, che faceva anche delicatissime ricostruzioni plastiche. Furono potenziati i castelli di Crotone, Reggio, Amantea e Fiume-freddo Bruzio. Ma più che di castelli si cominciò a parlare di palazzi. Infatti furono innumerevoli le case nobiliari costruite nella regione, tra cui quelle che ancora oggi si possono ammirare nell'intatto centro storico di Cosenza. Qui troviamo palazzi appartenuti a famiglie tra le più importanti del viceregno: Telesio, Tarsia, Sersale, Giannuzzi-Savelli, de Matera, Caputi, Sambiase e infine quello del contestabile Ciaccio, dove c'è ancora il bellissimo arco. Ricchissima è l'architettura sacra e gli esempi si sprecano. E tantissime altre testimonianze, sparse per ogni dove, richiamano linee rinascimentali, barocche e tardo barocche, mentre negli edifici di culto e nelle abitazioni private si possono trovare affreschi e quadri dei maggiori artisti del tempo: dal Parmigianino ad Antonello da Saliba, da Antonello da Messina a Fabrizio Santafede, da Mattia Preti a Luca Giordano a Josè Ribera. Nelle chiese spiccano le sculture di Antonello Gagini, di Giovambattista Mazzolo e di David Muller, gli altari ed i cibori di Cosimo Fanzago e dei suoi discepoli, le opere degli argentieri ed orafi campani e abruzzesi. Questo dimostra come la Calabria non era un angolo sperduto degli immensi domini spagnoli ma a pieno titolo, pur con le ovvie difficoltà, partecipava alla vita civile, artistica e culturale di quei secoli. Tanto che l'abate Giovan Battista Pacichelli nel 1703, a dominio spagnolo ormai calante, sottolineava come non solo a Napoli ma anche altrove, in prestigiose cariche militari e civili c'erano "degnamente" tanti calabresi.

 

Il terremoto dei Borbone

Ma tante nubi si addensavano sull'impero iberico dove una volta "non tramontava mai il sole". E nel 1707 nel Sud s'insediò l'Austria. Un'occupazione che mancava, ma che eravamo sulle ali dell'Aquila imperiale asburgica in Calabria non se ne accorge quasi nessuno. Per il gigante spagnolo la ferita era bruciante, soprattutto per la giovane moglie di Filippo V di Borbone, l'ambiziosa Elisabetta Farnese. Passarono gli anni ed il servizio veniva reso: con l'occasione della guerra di successione polacca, un esercito spagnolo occupò Napoli. E nel 1734 il figlio di Filippo ed Elisabetta, Carlo di Borbone, si insediò sul trono. Si aprì per il Sud e la Calabria una nuova fase: il Regno dei Borbone di Napoli. Prima di tutto, Carlo non fu un sovrano che "prendeva", ma uno che "dava". E infatti trasferì nella nuova capitale, la splendida collezione d'arte dei Farnese, dei quali egli era l'ultimo erede. Si tratta di opere d'inestimabile valore che recentemente, nel settembre 1995, si sono potute ammirare nella splendida mostra allestita a Napoli nel Museo di Capodimonte. Innovatore e illuminato, Carlo affrontò con decisione i problemi del Regno. Lo fece anche in Calabria, dove subito si cimentò con una questione di fondo: gli usi civici. Contese interminabili si erano svolte nei secoli passati ma stavolta è invece la Corona che, nel 1752, prese direttamente in mano la situazione e la sbrogliò a vantaggio del demanio e di sé stessa. Quindi le popolazioni continuarono a esercitare i diritti di erbatico, di legnatico, di pascolo, di granatico e d'altro e la Corona poté continuare a godere i privilegi sulla raccolta delle nevi (per i sorbetti), sull'estrazione della pece e, soprattutto, nell'utilizzo delle "camere chiuse", che erano boschi di proprietà reale utilizzati per fabbricare le navi. Ed è grazie al fatto che essi erano proprietà del re , e quindi da altri intoccabili, che oggi in Sila si può ammirare la splendida riserva del Fallistro, vicino Camigliatello, ricca di maestosi pini secolari.

Le riforme di Carlo facevano sentire i propri effetti anche in Calabria. Infatti, la regione cresceva e si sviluppava in modo più ordinato con l'istituzione del Catasto Generale (che introduceva un sistema fiscale moderno), del Supremo Tribunale del Commercio (che coordinava le attività economiche) ed il potenziamento della flotta mercantile (per cui anche i porti di Reggio e Crotone aumentarono in modo considerevole i propri traffici). Erano anni in cui a Napoli c'era una libera circolazione delle idee, che producevano testimonianze fascinose ed inquietanti come quelle di Raimondo di Sangro, principe di Sansevero. Sotto Ferdinando IV, successore di Carlo che era diventato re di Spagna, si tentava l'esperimento della colonia sociale di S. Leucio. Nel fantastico Teatro S. Carlo di Napoli si ascoltavano anche le musiche del calabrese Leonardo Vinci e successivamente vi risuoneranno anche le note composte dal giovanissimo e sfortunato Nicola Antonio Manfroce. Ma allora era tempo di grandi fermenti. E le idee riformatrici e illuministe trovavano a Napoli, e di riflesso anche in Calabria, un terreno molto fertile. Nella regione queste spinte innovative coinvolgevano gli economisti Domenico e Francescantonio Grimaldi, il marchese cosentino Giuseppe Spiriti, il canonista Domenico Cavallari, che si abbeveravano alle idee di Pietro Giannone e di Antonio Genovesi. Le trasformazioni erano accelerate ed in tutti i campi si avvertiva un sensibile risveglio nella società calabrese. Che le cose stessero cambiando lo si era visto già nel modo in cui la dinastia aveva affrontato il problema degli usi civici e aveva proceduto alla tassazione di gran parte dei beni dei religiosi, che in Calabria rappresentavano rendite considerevoli.

I cambiamenti venivano ostacolati da una serie di difficoltà, quali una pestilenza nel 1743 e una carestia nel biennio 1763-64. E proprio sul finire del 1743 giunse per pochissimi giorni in Calabria Giacomo Casanova, che nella Storia della mia vita descrive la regione in termini negativi, non avendo certo frequentato e visto le cose migliori. Il veneziano, prima di ripartire alla volta di Napoli, però riconobbe :«Cosenza è una città dove una persona dabbene può divertirsi: ci sono uomini ricchi, nobili titolati, belle donne e persone non prive di cultura». Tra queste «persone non prive di cultura», presenti anche in altre zone della Calabria, era sicuramente da annoverare anche Domenico Grimaldi che, nel suo feudo di Seminara, sperimentò una nuova lavorazione dell'olio, chiamando come consulenti i migliori artigiani del tempo, che erano quelli della riviera di Ponente di Genova. Le nuove tecniche diedero subito risultati positivi e vennero immediatamente sperimentate con successo anche da altri feudatari calabresi. Furono infatti cospicue le quantità di olio che partirono dai porti della regione, soprattutto Diamante e Tropea sul Tirreno, e Reggio, Crotone e Soverato sullo Ionio. Ma altri commerci riguardavano il vino, i formaggi ed il legname silano. Anche da questi particolari si può notare vitalità economica e civile, accanto alle rovine delle antiche civiltà e a paesaggi di una bellezza incommensurabile, quelli che poi vennero descritti nelle splendide tavole contenute nel Voyage pittoresque ou Description des Royaumes de Naples et de Sicilie, dell'abate de Saint-Non.

Ma nel 1783 successe l'imprevedibile. Un terremoto immane interessò la Calabria meridionale, con epicentro nella Piana di Gioia, dove le sciagure sono devastanti. Interi paesi vennero distrutti, montagne si spaccarono, fiumi strariparono. Era il 5 febbraio. Passò poco ed il 28 marzo si registrò un'altra scossa che addirittura provocò un abbassamento di tutta la parte centrale della regione. Infatti, non solo i danni agli edifici furono incalcolabili (vennero persi per sempre tesori inestimabili, dall'età greca in poi), ma fu un autentico massacro di uomini, che restarono in decine di migliaia sotto le macerie. I paesi completamente distrutti o seriamente danneggiati furono intorno a trecento. In questa occasione, l'intervento dello Stato fu tempestivo ed efficiente, ed anche gli storici meno sereni sono costretti ad ammetterlo. Ferdinando IV nominò Vicario generale Francesco Pignatelli, principe di Strongoli, che pose la sua sede a Monteleone, da dove partono i soccorsi. Truppe scelte portano i primi, indispensabili aiuti. Gli interventi furono precisi, ordinati, efficaci. Per i carcerati meno pericolosi c'era la libertà se si impegnano per la ricostruzione, mentre i nobili vennero obbligati a ritornare nei loro feudi per proteggere i vassalli. In brevissimo tempo venne posto mano ai disagi più gravi e furono limitati enormemente i danni, con generale soddisfazione. Sembra fantascienza se si paragona a quello che avverrà poi nei secoli successivi.

La Calabria con una serie di provvedimenti diventò, sotto i Borbone, un vero laboratorio politico. Infatti lo Stato mise gratuitamente a disposizione degli avvocati per assistere i Comuni nelle controversie contro i nobili che avevano abusivamente occupato le terre demaniali. Quindi istituì, sotto la direzione del ministro delle Finanze del Regno, nel 1784 la Cassa Sacra, che aveva il compito di incamerare i beni di quasi tutti gli enti ecclesiastici per amministrarli o porli in vendita. L'utile sarebbe stato rivolto per la ricostruzione della Calabria e anche per aumentare il numero dei proprietari. Il programma, concordato addirittura anche con il papa Pio VI, «era», scrive Placanica , di «un'audacia e di un'ambizione senza pari e non aveva precedenti nella storia d'Europa». Non tutto andò com'era previsto, ma più di 5.000 fondi furono venduti a quasi 3.000 acquirenti. Ovviamente la parte del leone la fecero i borghesi, che avevano le maggiori disponibilità finanziarie (il che dimostra che c'era anche allora spirito di impresa in Calabria), poi i nobili ed infine, una parte assai modesta, ma significativa, fu appannaggio dei contadini. La società calabrese era in movimento, gli antichi equilibri sociali non reggevano più. La Cassa Sacra venne sciolta dopo 16 anni, con la constatazione che le ricchezze appartenute alla Chiesa erano state sovrastimate. Ma i risultati positivi indubbiamente vi furono e la manomorta ecclesiastica, cioè la rendita parassitaria della Chiesa, venne praticamente ridotta al minimo. Sintomo di un inedito interesse del governo di Napoli verso le sorti della regione, furono le visite disposte attraverso funzionari colti ed intelligenti, come Luigi de' Medici. Ma di sicuro interesse fu il viaggio che, nel 1792, venne ordinato a Giuseppe Maria Galanti, Visitatore Ufficiale del Regno, che propose la costituzione di due Società Patriottiche, con sedi a Cosenza ed a Catanzaro, con il compito di provvedere a formulare proposte per affrontare i problemi della società calabrese. Non se ne fece nulla, anche perché ormai l'eco della Rivoluzione francese si avvertiva in tutte le corti d'Europa, che guardavano atterrite a quello che stava avvenendo a Parigi.

Per Dio e per il Re

Anche a Napoli era tempo di cambiamenti. Ne fecero le spese De Deo, Vitaliani e Galiani, che persero la testa sul patibolo, venendo considerati i primi martiri del Risorgimento. La Calabria era in fermento. L'abate Jerocades a Pargherlia, Giovanni Labonia a Rossano, Francesco Valitutti a Paola, Giuseppe Logoteta a Reggio Calabria e altri intellettuali, sparsi per tutta la regione, sposarono le cause della massoneria e dei tempi nuovi. Ma le vicende incalzavano. A Parigi Napoleone conquistava il potere: la Rivoluzione diventava europea. Arrivò in Italia il generale Championnet, che indusse Ferdinando IV a rifugiarsi in Sicilia. A Napoli venne proclamata la Repubblica il 22 gennaio a Castel S. Elmo. Tra i 22 firmatari dell'atto di decadenza della monarchia c'era anche Giuseppe Logoteta. Il giorno successivo le truppe francesi entrarono a Napoli, dopo combattimenti sanguinosi. La Repubblica Partenopea ebbe vita breve, neanche sei mesi. Di questo avvenimento Vincenzo Cuoco individuò le debolezze maggiori: si trattò di una rivoluzione importata, gestita da persone che erano imbevute dei princìpi teorici della rivoluzione. Fu un tentativo generoso, appassionato, convinto, a cui parteciparono esponenti delle migliori famiglie del Regno e in cui il segretario del governo provvisorio della Repubblica napoletana era il cosentino Francesco Saverio Salfi, un intellettuale di dimensioni europee. Fu però un tentativo che alle dichiarazioni di principio non fece seguire fatti concreti.

Il giorno dell'insediamento alla corte di Palermo, il 25 gennaio 1799, Ferdinando IV nominò Vicario Generale del Regno il cardinale calabrese Fabrizio Ruffo, che nel già 1791 lo stesso sovrano aveva incaricato di sovrintendere alla colonia agricola di S. Leucio. L'8 febbraio, con sei persone, il cardinale sbarcò sulle coste calabresi, nei territori che erano feudo della sua famiglia, sventolando quella bandiera bianca che sarà destinata a diventare il vessillo delle Armate della Santa Fede. Ruffo invitò le popolazioni ad insorgere in nome della religione e del re. I parroci fecero suonare le campane, la sollevazione diventò popolare, incontenibile. Nel giro di pochi giorni furono più di quattromila. Passò per Palmi, da dove indirizzò un proclama Ai bravi e coraggiosi calabresi, quindi fu a Monteleone, Pizzo e poi a Catanzaro. Nel frattempo Crotone, che aveva fatto la scelta repubblicana, venne occupata e saccheggiata dal brigante Panzanera. Questo episodio ebbe effetti devastanti per il Cardinale, il cui esercito si sbandò. Dovette cominciare tutto da capo, ma il consenso era ancora fortissimo e in pochi giorni riunì un'altra armata di settemila uomini e mosse verso Corigliano. Nel frattempo, per contribuire alla causa, gli inglesi avevano fatto sbarcare un migliaio di galeotti sulle coste calabresi. Ruffo li assegnò a Nicola Gualtieri detto Panedigrano, un altro brigante, che li utilizzò con ferrea disciplina. A Cassano ormai l'Armata, fatta di irregolari, truppe baronali, ex carcerati, cavalieri, artiglieri era composta da oltre sedicimila uomini. La Calabria aveva risposto alla chiamata del cardinale, che poi, dopo l'assedio e gli eccidi di Altamura, riuscì a conquistare la capitale nel giugno. E al forte di Vigliena, posizione strategica per il controllo della città, i calabresi si trovarono contro i calabresi. Da un lato truppe fedeli al cardinale guidate dal reggino Rampini riuscirono a conquistare la piazzaforte sotto le cannonate dei repubblicani; dall'altro, visto che la posizione era ormai perduta, il prete cosentino Antonio Toscani fece saltare il forte, alla Pietro Micca. I rivoluzionari si arresero a condizione di avere salva la vita ma vennero giustiziati, su ordine dell'ammiraglio inglese Horace Nelson. Dal 29 giugno 1799 all'11 settembre del 1800 vennero decapitate o impiccate in Piazza Mercato a Napoli alcune delle più belle e nobili intelligenze d'Europa. E accanto a Francesco Caracciolo, Ettore Carafa, Domenico Cirillo ed Eleonora Pimentel Fonseca, l'eroina della rivoluzione e direttrice del Monitore napoletano, ci furono anche i calabresi Giuseppe Schipani, Agamennone Spanò, Gennaro Serra duca di Cassano, Ferdinando e Mario Pignatelli dei principi di Strongoli, Francescantonio Grimaldi, Vincenzo De Filippis, Giuseppe Logoteta e altri. Salfi riuscì a scampare al patibolo, rifugiandosi in Francia. Altissimo era stato l'apporto dato dalla Calabria sia alla causa dei giacobini che a quella dei Sanfedisti. Anche nella regione la repressione fu dura e coinvolse il vescovo giansenista Giovanni Andrea Serrao, il vescovo di rito greco Francesco Bugliari, oltre a famiglie della più importante nobiltà calabrese: dai Suriano ai Lucifero, dai Mauro ai Malena.

E' bene approfondire la figura del cardinale, sotto il cui segno si era svolta la rapida reconquista del Regno. Di Fabrizio Ruffo si è detto prevalentemente che era uno strumento della più bieca reazione. Sicuramente si tratta di un personaggio enigmatico, non molto approfondito dalla storia. Su di lui il giornalista inglese Peter Nichols ha scritto un romanzo singolare, che si chiama Rosso Cardinale, ambientato a metà tra la storia e la fantasia, ma che appunto per questo forse riesce a cogliere alcuni aspetti fondamentali. Scrive: «Ruffo cercava di imprimere un corso agli eventi, sapete come fosse profondamente pessimista e non solo a proposito della natura umana. Riteneva che tutta la nostra società fosse malata e che la rivoluzione francese fosse un sintomo di questa malattia». E subito dopo fa dire direttamente al cardinale: «Mi chiedete perché ordino un Te Deum dopo una vittoria, quando ancora il sangue non è stato spazzato via dalle strade? Regalità e religione procedono insieme. Perché credete che i nostri nemici siano repubblicani ed atei? Perché pensate che io in quanto uomo di Chiesa abbia deciso di restituire questo Regno al suo legittimo monarca? E lo farò, non dubitatene. Ed i poveri e gli umili mi benediranno per questo. C'è un solo sistema per i quali essi possono essere governati tollerabilmente, e loro lo sanno, checché ne pensino i vostri astuti avvocati ed i vostri preti progressisti». Uomo colto, raffinato, frequentatore a Napoli della corte del Re ed a Roma di quella del Papa, era completamente alieno da interessi materiali e personali. Quello che ha provocato, lo ha fatto secondo alcuni sbagliando, ma sicuramente per fede. La Rivoluzione però continuava a sconvolgere l'Europa. E non poteva che ritornare nel Regno di Napoli.

La Vandea Italiana

Il 14 febbraio 1806 le truppe francesi occuparono Napoli e sul trono s'insediò il fratello di Napoleone, Giuseppe Bonaparte. Trovò in Calabria le prime e più irriducibili resistenze. La regione acquistò un'immensa notorietà e venne paragonata in tutta Europa alla Vandea, che si era opposta strenuamente all'avanzata della Rivoluzione. Si era da poco insediato il nuovo monarca che subito, insopprimibile, scoppiò una rivolta, che non accennò a placarsi fino alla fine della dominazione francese. La scintilla scoccò a Soveria Mannelli, un villaggio della presila. Era il 22 marzo, secondo giorno di primavera e, secondo la tradizione, il francese che comandava il drappello che presidiava il borgo insidiò una bella e giovane donna del luogo. Alle grida della donna, accorsero i paesani guidati da un contadino, Carmine Caligiuri, e i quattordici francesi del drappello vennero massacrati. Da Soveria, l'insurrezione si diffuse come un fiume in piena in tutti i comuni vicini. A nulla servì che i francesi intervenissero in modo spietato, bruciando i villaggi ed impiccando i rivoltosi. Nel frattempo Pedace, Martirano, S. Eufemia, Scigliano, Savelli, Longobucco e tanti altri si sollevarono. Amantea venne occupata da Fra Diavolo, un brigante leggendario. A Maida il 4 aprile i Francesi furono sconfitti dai rivoltosi, sostenuti da truppe inglesi. Non paghi di avere compiuto massacri ad Acri e Crotone, i Francesi si scatenarono con violenza inaudita e la guerra, da ambo le parti, fu efferata e senza quartiere. Tra gli occupanti si distinse soprattutto il generale Manhes, la cui violenza è rimasta proverbiale. Il 31 luglio vi fu la proclamazione dello stato di guerra nella Calabria. Si tratta di uno dei pochi provvedimenti formali nella storia dell'umanità, per legittimare le azioni di ferocia inaudita che i Francesi inflissero alle popolazioni della Calabria.

Gli occupanti reagivano così anche perché, abituati a trionfare in tutta l'Europa, non potevano mai immaginare di incontrare una resistenza così tenace proprio in questa sperduta regione. Forse soltanto nella Galizia, ci fu qualcosa di simile, ma mentre in Spagna l'opposizione alla conquista francese è diventata una pagina luminosa della storia nazionale, peraltro eternata anche da Goya nei suoi dipinti, da noi nei libri di scuola non se parla neppure. Ma nonostante questo la Calabria restò in guerra fino alla fine della dominazione francese, nonostante nel 1808 diventasse re Gioacchino Murat. In questa che gli inglesi definirono "terra ignota d'Europa", la rivolta dei calabresi, che fu comune e costante non solo in tutto il Sud ma anche nel resto d'Italia occupata dai Francesi, è stata spesso taciuta, oppure sempre negativamente giustificata. Solo recentemente, grazie soprattutto ad Atanasio Mozzillo, c'è maggiore equilibrio. I Francesi abolirono per legge la feudalità, come se un'istituzione secolare potesse essere eliminata per decreto; provvidero alla ridefinizione delle circoscrizioni comunali, aumentandone in modo considerevole il numero; migliorarono sensibilmente il più importante asse viario del tempo, che era stato in precedenza tracciato dai Borbone e che era la strada delle Calabrie (attuale strada statale 19); trasferirono la capitale della Calabria Ulteriore da Catanzaro a Monteleone. E poi misero in vendita i residui beni ecclesiastici. I fondi ceduti furono 500, dei quali quasi il 40% vennero acquistati da Emanuele de Nobili, barone di Simeri. Il resto andò a chi possedeva cedole del debito pubblico nazionale, ad alti borghesi, ai grandi burocrati dello Stato e ai nobili. In definitiva questa alienazione dei beni della Chiesa aveva di fatto favorito l'estensione del latifondo e accentuato l'importanza di chi possedeva cospicue somme di denaro. Tutto il contrario dei sacri princìpi della Rivoluzione. E con questi provvedimenti, e simili argomenti, unitamente alla guerriglia che senza soste insanguinò la regione per l'intero decennio, la Calabria, secondo qualche storico, «usciva dal secolare isolamento».

Aspettando l'Italia

Con il Congresso di Vienna, nel 1815, sul Regno del Sud ritornavano i Borbone, nonostante le beghe dello spodestato Gioacchino Murat, che tentò di riprendersi il Regno, approdando proprio in Calabria. Accolto con ostilità, venne prontamente imprigionato e fucilato il 13 ottobre del 1815 nel Castello di Pizzo, che oggi porta il suo nome. Ferdinando IV, ritornato sul Regno, lo chiamò delle Due Sicilie, diventò Ferdinando I e promulgò i codici che furono ben presto considerati come i migliori d'Europa. In segno di ringraziamento per il ritorno sul trono, fece costruire nel Largo di Corte, oggi piazza Plebiscito, una monumentale basilica intitolata al santo calabrese Francesco di Paola. Abolì il diritto del maggiorasco per ampliare i trasferimenti della proprietà terriera e nella regione istituì una nuova provincia, dividendo quella Ulteriore in Prima, con sede a Catanzaro, e Seconda, con capoluogo Reggio. Dovette fare fronte al primo tentativo insurrezionale del Regno, che scoppiò a Nola nel 1820, promosso da due sottufficiali, il monteleonese Michele Morelli e Giuseppe Silvati. Per reprimere la sommossa il re inviò un altro calabrese, il generale Guglielmo Pepe, che invece di combattere gli insorti si unì a loro e mosse verso Napoli, costringendo Ferdinando I a concedere una Costituzione e a fare eleggere un'assemblea legislativa, dove uno degli esponenti di maggior spicco fu il barone calabrese Giuseppe Poerio. In soccorso dei Borbone, arrivarono gli Austriaci, che non ebbero difficoltà ad avere la meglio sull'esercito comandato da Guglielmo Pepe. Seguirono gli arresti per i capi dell'insurrezione, ma tutti furono graziati, tranne Morelli e Silvati, ai quali toccò la forca. Così come capitò ai responsabili di una rivolta di breve durata, che avvenne a Catanzaro nel marzo del 1823. Ad essere giustiziati furono Giacinto De Jesse, Luigi Pascale e Domenico Monaco, quest'ultimo di Mendicino. Tra il 1835 ed il 1837 Luigi Settembrini insegnò a Catanzaro, dove venne arrestato. Nel 1839 si sollevarono i paesi albanesi e quelli del cosentino, ma vennero presto ricondotti all'ordine. Cinque degli insorti furono fucilati, mentre agli altri toccò la galera. Preceduto dall'insurrezione di Cosenza del 15 marzo, che provocò la morte di quattro gendarmi e di altrettanti insorti, nel 1844 ci fu la spedizione di Attilio ed Emilio Bandiera che, partendo da Corfù, sbarcarono a Crotone; intercettati a S. Giovanni in Fiore, furono arrestati dalle autorità borboniche. I fratelli Bandiera e i loro seguaci vennero fucilati nel vallone di Rovito, presso Cosenza, il 25 luglio del 1844. Tre anni dopo scoppiò un'altra rivolta, che si sviluppò nel reggino e nel catanzarese, a cui parteciparono anche esponenti del clero. Dopo una serie di scontri, gli insorti vennero arrestati e i capi della sommossa fucilati il 2 ottobre: Michele Bello, Gaetano Ruffo, Rocco Verduci, Domenico Salvatori, Pietro Mazzoni, che sono stati indicati come i "Martiri di Gerace". Il mese prima era stato ucciso a Reggio Domenico Romeo, capo dell'insurrezione.

Il Quarantotto fu un anno memorabile. Il nuovo re Ferdinando II aveva concesso la Costituzione, per poi ritirarla. Anche a quelle convulse giornate napoletane avevano preso parte numerosi calabresi, e soprattutto Carlo Poerio, che ne era stato il maggiore protagonista e che svolse un ruolo di primo piano per tutto il Risorgimento. I liberali che erano in Calabria avevano accolto la concessione della Costituzione con grandi speranze, ma vedendo cambiare le cose affrontarono in uno scontro aperto l'esercito reale nella battaglia dell'Angitola, dove morirono, tra gli altri, Ferdinando de Nobili di Catanzaro, Giuseppe Mazzei di S. Stefano, Domenico Scaramuzzino di Nicastro, Domenico Morelli di Mormanno. Oltre 350 furono i condannati politici, molti dei quali costretti successivamente ad espatriare. Alcuni li troveremo tra le camicie rosse che partirono da Quarto nel maggio del 1860: Francesco Stocco, Giovanni Nicotera e Benedetto Musolino, che poi saranno anche deputati nel primo parlamento del Regno d'Italia. Erano gli anni in cui Andrea Cefaly, pittore di Cortale, uno dei più accreditati del periodo, concepiva, come simbolo della lotta contro l'oppressione, il potente quadro di Spartaco. E infine calabrese fu chi attentò, nel 1856, alla vita del sovrano, infliggendogli una pericolosa baionettata. Era Agesilao Milano, di origini albanesi, nato a S. Benedetto Ullano. Venne decapitato al largo del Cavalcatoio a Napoli.

Quando si parla dell'età risorgimentale, ovviamente si ricordano i moti e si trascura tutto il resto. Va quindi detto che sul trono di Napoli, a Ferdinando I era succeduto Francesco I e poi, nel 1825, Ferdinando II, che all'inizio del suo regno venne guardato con attenzione anche dagli ambienti liberali. Ebbe molta cura dell'attività di governo e possiamo trovare testimonianze significative anche in Calabria, che Ferdinando II visitò tre volte: nel 1833, nel 1844 e nel 1852. Alla fine del regno borbonico le principali città della regione potevano comunicare tramite linee telegrafiche. Nel 1847 era stata abolita l'imposta sul macinato, che penalizzava i più poveri. Era stato dato impulso all'educazione con l'istituzione di scuole di ogni ordine e grado e a Catanzaro anche dell'Università. Si intervenne sulle strade principali della regione. Il 18 aprile del 1853 Ferdinando II decretò l'istituzione di due "Casse di Prestanze Agrarie" che rappresentarono il nucleo originario di quella che diventò nel 1861 la Cassa di Risparmio di Calabria, che avrebbe svolto una funzione fondamentale per lo sviluppo della regione. A Reggio venne completato il Teatro Comunale e promossa una Biblioteca Civica, mentre nel 1819 era stato istituito il Museo, a salvaguardia degli inestimabili reperti archeologici. A Catanzaro venne costruito il Real Teatro Francesco I, che diventò il centro culturale della vita cittadina. A Cosenza sorse il Teatro Reale Ferdinando di Borbone. A Paola, la città di S. Francesco, particolarmente cara alla dinastia, venne visitata dal re nel 1844 insieme con la regina Maria Teresa e, nel 1852, accompagnato dal principe ereditario. Sempre a Paola venne ripristinata l'attività dei monaci francescani e riaperto il protoconvento, chiuso sotto il dominio francese. Nel frattempo, all'Università di Napoli, dove insegnava logica e metafisica, il tropeano Pasquale Galluppi faceva conoscere ai suoi studenti le nuove correnti della filosofia europea, a cominciare da Kant.

Ma durante questo secondo periodo borbonico si registrarono in tutta la Calabria importanti cambiamenti. Prima di tutto c'era la quasi completa possibilità di esercitare gli usi civici che consentivano a larghe masse di contadini di utilizzare i vasti demani della Sila e del Marchesato. La popolazione aumentò notevolmente tra il 1801 ed il 1861, passando dai 750.000 ad 1.140.000 abitanti. A Mongiana, nelle montagne delle Serre, funzionavano le Regie Ferriere con quasi duemila operai. Secondo alcuni, era il più importante polo siderurgico italiano, che subito dopo l'Unità venne completamente smantellato. Si tenga conto che la prima ferrovia italiana, inaugurata proprio nel Regno delle Due Sicilie nel 1839 con la Napoli-Portici, dimostrava l'importanza di queste industrie. Peraltro, calabresi erano le due persone considerate più ricche del Regno e ovviamente molto influenti presso la corte di Napoli, dove, dal 1843 erano entrambi gentiluomini di camera del re: i baroni Luigi Barracco e Luigi Compagna, che avevano dato prova di notevoli capacità imprenditoriali nella gestione moderna e produttiva dei loro feudi. Nel 1859 Ferdinando II moriva. Gli successe il giovane figlio Francesco II. Infuriava la seconda guerra di indipendenza e per il Regno delle Due Sicilie i tempi volgevano all'impossibile. Il giglio della dinastia era destinato ad appassire presto.

«A me m'ha rovinato Garibaldi»

Parlare male di Garibaldi? Oggi, pur non avendo certo le dimensioni di un fenomeno di massa, lo si sente fare sempre più spesso anche in Calabria. Fino a qualche anno fa era considerato quasi un sacrilegio. Infatti, il mito dell'Eroe è stato sempre fortissimo in queste contrade. E dovunque Garibaldi è arrivato, ha dormito, ha desinato, forse anche presso "l'albero dove si presume sia stato adagiato", ci sono delle targhe, dei monumenti, delle iscrizioni per ricordare l'evento. Credo che in nessuna regione come la Calabria possa rinvenirsi tale ricchezza. Garibaldi era partito da Quarto i primi di maggio e quasi nessuno lo aveva preso sul serio, tranne i Mille, tra i quali c'erano anche ventuno calabresi. Una volta in Sicilia le cose cambiarono e a fine giugno si era già impossessato dell'isola. Sbarcò in Calabria, a Melito Porto Salvo, il 19 agosto. Si imbatté con le armate borboniche il 29 agosto a Soveria Mannelli, paese ritenuto fedele ai Borbone. Erano in diecimila al comando del generale Giuseppe Ghio e avevano cavalli e cannoni ma preferirono non opporre alcuna resistenza. Si arresero senza condizioni. La tradizione dice che il generale Francesco Stocco, una delle anime della spedizione, che era dei luoghi, facesse appiccare dei fuochi attorno a Soveria, facendo credere che il numero degli insorti fosse immenso. Altri preferiscono invece ricordare che Ghio si rifugiò presso l'accampamento di Garibaldi, forse per non fare la fine del generale Briganti che quattro giorni prima a Mileto era stato ucciso dalle truppe umiliate e inferocite, proprio perché si era rifiutato di combattere. Garibaldi arrivò a Napoli senza incontrare più alcuna resistenza e propose proprio al generale Ghio il comando della Piazza di Napoli. Vi rimase per pochi giorni perché venne incarcerato: qualcuno si ricordò che era stato uno dei massacratori di Pisacane. Ma appena giunti i piemontesi, fecero giustizia: lo liberarono, mettendolo subito in pensione. Ma tutta l'impresa dei Mille fu ricca di ufficiali che non combatterono e che, una volta finite le ostilità, cambiarono divisa. Sottufficiali e soldati invece andarono ad ingrossare le fila di quell'altra grande guerra civile che, subito dopo l'Unità, infiammò tutto il Sud e che interessò la Calabria in modo profondo. Nei libri di storia la chiamano "brigantaggio".

continua parte terza