memorie

Ricerca e testimonianza nella Sambiase di ieri

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                                                      A cura di Giuseppe Ruberto

Vita dei miei antenati(1)
La povertà è sempre stata la caratteristica del Mezzogiorno e della Calabria, in particolare anche nella nostra Sambiase si viveva nella miseria e nella povertà. Sono, infatti, testimonianza delle condizioni di disagio le casupole rovinate dei vecchi rioni, casupole che sotto l'intonaco nuovo, il colore fresco alle pareti (dove ci sono), ecc., non riescono a nascondere le umilissime origini.

 

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La condizione di povertà in cui si viveva si nota anche nel modo di vivere delle generazioni più anziane: vestito dimesso, mangiare assai poco, apertura centellinata e sospettosa al progresso incalzante.

Le abitazioni, nella quasi totalità, come in tutta la Calabria, anche a Sambiase erano di un solo vano a piano terra o di due, modificandosi lentamente il criterio urbanistico, e tutte seguivano il livello della collina.

La pavimentazione in alcuni casi difettava, mentre, in altri, era fatta di pietre piatte e informi o di cotti locali. I più fortunati tra i poveri abitavano in una casetta (turra), anch'essa monolocale, ma fatta di mattoni di terra non cotta, ma essiccata al sole.

Per ottenere questi mattoni si faceva uno speciale impasto, «vriastu», un composto di paglia, fango e creta.

casapinoSpesso in una camera abitava l'intera famiglia, quasi sempre numerosa. Nella camera da letto era situato un letto mastodontico (a' littera), su cui si doveva salire con l'aiuto di una sedia. Il letto era così grande perché doveva accogliere tutta la famiglia in quest'ordine: «allu capizzu» riposavano genitori e figlie, «alli pidizzi» riposavano i figli.
Inoltre, sparse in ogni vicinato erano le stalle per la custodia di greggi, asini, muli e cavalli, tutti soggetti alla tassa sui capi di bestiame. Mancavano, comunque, di sufficiente aerazione ed erano anche prive di ossigeno e costantemente invase dal fumo. Mancava, naturalmente, l'acqua, che veniva attinta alle fontane pubbliche.

gbm15La rete fognaria non esisteva affatto ed era supplita dai vichi, sicché si poteva dire che l'intero abitato era la fogna aperta di uomini e animali e solamente le provvidenziali piogge potevano liberare le vie e l'aria dai miasmi che si creavano.
Il bucato di cenere cotta (lissìa) era l'unico mezzo di lotta per assicurarsi un po' di pulizia e costituiva per le donne una delle principali occupazioni, che venivano completate nel greto del Cantagalli o nel fiume Calabria , dove l'acqua si prestava al risciacquo dei panni.
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La vita giornaliera si svolgeva quasi completamente in campagna, dove le schiere di uomini con gli arnesi da lavoro sulle spalle partivano al mattino per tornare alla sera. A sera, verso l'imbrunire, terminava il lavoro e di nuovo a percorrere la strada del mattino.

S'arrivava a casa tardi. Moglie e figli, quasi sempre numerosi (allora esistevano famiglie anche con dieci persone), impazienti aspettavano «u' tata» (il nome papà spettava a pochi benestanti) e poi, tutti insieme, consumavano quel «ben di Dio» che s'era potuto preparare. .

Veniva presentato in un'unica «limba» (grosso piatto concavo) a cui tutti attingevano con avidità.
Il misero salario era regolato con poco danaro e pane, grano e altre derrate, quando non era la contropartita di un altro lavoro ricevuto, come dal forgiaro o dal calzolaio. Il pane era l'alimento principale e nelle frazioni montuose era di colore scuro, perché fatto di farina di castagne o di segale.

I fichi secchi costituivano il companatico abituale invernale dei poveri. Qualche volta sostituivano la fetta di pane integrale e di «mezza crisàra» o di grano misto a granturco o di solo granturco.

Le provviste erano disposte in casse e cassoni di legno o appese a delle pertiche sospese al soffitto per curarsi al fumo e all'aria, quando si trattava degli ortaggi aromatici e dei salami.

Tra questi primeggiava il lardo, che doveva mostrare anche la ricchezza della famiglia con le sue forme doppie e romboidali pendenti e pronte al coltello, che, per ogni cucinato, in mancanza dell'olio, doveva affettarlo e tritarlo.
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Il pane, comunque fatto, era sacro: i pezzi caduti per terra si raccoglievano con venerazione. La povertà nelle campagne era ancora più accentuata.

La vecchiaia si raggiungeva raramente, era molto precoce e non aveva alcuna assistenza e protezione, sicché da tutti era disprezzata, temuta, derisa dai piccoli e pesante da sopportarsi, perché la si doveva vivere nella completa indigenza e negli acciacchi, curva sotto il peso dei faticosi anni trascorsi sempre proni sulla terra.

I signori soltanto potevano permettersi il lusso del «casino» (così chiamata l'abitazione di campagna). Alcune cause di tanto malessere, in tanti paesi della Calabria e quindi anche in Sambiase, erano di ordine naturale: terremoti, intemperie, alluvioni, pessimi raccolti, terreni incolti perché paludosi; altre cause sono da attribuire alla cattiveria umana: proprietà terriera accentrata per presunti diritti nelle mani di pochi, connivenze perché disposizioni in favore dei poveri si vanificassero o di esse beneficiassero i ricchi, che di fatto ampliarono i loro patrimoni.

Contro lo strapotere dei ricchi e degli arricchiti, per sottrarsi all'egoismo calcolatore, la povera gente, qualche volta, si ribellò lavorando poco, lavorando male e abbandonando la terra dei padroni per emigrare in «America» oppure infierendo con la violenza.
carrette Per la fame si sollevò pure più volte la popolazione intera contro le amministrazioni comunali e gli enti e gli uffici che li rappresentavano nella erogazione di sussidi.

Furono la sfiducia verso i tutori della legge, il moltiplicarsi delle angherie, il vendicare il sopruso, il vendicare l'onore, il farsi giustizia con le proprie mani e altre cose a determinare la violenza da una parte e il brigantaggio dall'altra.

Nel carcere finivano gli sprovveduti. Molti si davano alla macchia avvantaggiati dai boschi, oppure fuggivano «oltre Oceano» dove, sotto altro nome, si ricostruivano una presunta vita nuova.

La violenza, a Sambiase, non sempre è stata ritorsione a offese gravi; ma bastava una parola di troppo, un gesto, un presunto diritto violato, un paniere di ciliege spiluccate nel campo confinante del proprio fratello, un po' di orgoglio umiliato: erano questi i motivi per uccidere. Teatro preferito per i delitti mortali, la campagna.Ma ne furono consumati anche in paese.

anzaroLa località Anzaro era conosciuta come il luogo nel quale avvenivano i duelli ad arma bianca.
Se la vittima è donna, si suppongono anche retroscene passionali. La donna che ha subito una violenza, non si arma per vendicarsi, ma arma la mano del fratello, del padre per lavare nel sangue l'onta subìta.

Il Sud e la Calabria, in particolare, chiusi nei residui feudali, sprovvisti di risorse, gravati da tasse, impossibilitati, quindi, a creare una industria locale, erano, dunque fermi all'agricoltura di sussistenza.
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La popolazione, a causa della malaria, era costretta a vivere in grossi borghi, situati in alto e lontano dai campi.

L'uomo partiva all'alba per andare a lavorare nei campi e tornava dopo il tra monto e, all'epoca dei grandi lavori, vi restava per tutta la settimana; le donne vivevano chiuse nel loro piccolo mondo fra le faccende domestiche e le fatiche del filatoio, del telaio, del lavatoio.

A Sambiase il lavoro era compiuto a mano e non con le moderne e brave macchine di oggi: il contadino lavorava la terra con la zappa, mieteva il grano con la falce, pigiava l'uva con i piedi, spaccava la legna con l'accetta...

Si faceva aiutare dai buoi o dal mulo per arare la terra, dall'asino o dal cavallo per trasportare le derrate agricole o per essere trasportato dalla casa alla campagna e viceversa.
chiazza6Il contadino prestava la manodopera a giornata, il bracciante vendeva tempo e forze fisiche dal primo mattino al tramonto inoltrato per rendere fertile la terra altrui in cambio di retribuzione per non morire di inedia.
I braccianti di Sambiase si facevano trovare o «alla cruci da chiazza» o più recentemente «alla villa», per offrirsi ai cosiddetti «padroni». Erano equipaggiati con zappone a cui era legato, dato che era portato in spalla, «u' stiavuccu» (piccola tovaglia contenente mezzo pane, quasi sempre di granone, un pugno di olive e poche sarde salate).

gbm07Al prezzo convenuto col padrone, molto basso per l'abbondanza di manodopera, si avviavano in campagna col padrone. Andavano a piedi, solo qualcuno viaggiava con la bicicletta.

Non appena arrivati, iniziavano il duro lavoro sotto lo sguardo sempre vigile del padrone o di un suo delegato. Guai a chi si allontanava a lungo per un bisogno fisiologico: correva il rischio di essere «scapulatu» (mandato a casa).

Negli anni '36-'37, si conduceva una vita molto misera.

gbm08Chi faceva il bracciante agricolo, u `zzappaturi", si alzava alle quattro del mattino con la zappa sulle spalle e "lu' stiavuccu" legato al manico. A quei tempi le scarpe erano privilegio di pochi, per i `zzappaturi" c'erano "i purcini", sandali di cuoio o di pelli di animali legati con un lungo laccio alla gamba.

Il padrone gli stava sempre vicino incitandolo a lavorare di più. Egli, per forte bisogno e per timore di non essere pagato alla sera, si sforzava a dare di più. La paga era di 30 soldi al giorno. Il lavoro s'interrompeva verso mezzogiorno per mangiare un pezzo di pane e formaggio e bere un quarto di vino offerto dal padrone in un bicchiere di latta.

A quei tempi, non si usava l'orologio, per la fine della giornata lavorativa ci si regolava col sole. Alle sette di sera "si scapulava" e si riprendeva la via del ritorno.

gcapo3A quei tempi la Previdenza muoveva i primi passi. Purtroppo, specialmente al Sud, le norme non venivano rispettate. I proprietari spesso si spalleggiavano con i Galantuomini del paese. Nel periodo fascista, le lavoratrici agricole avevano diritto alla conservazione del posto e al trattamento economico per tre mesi per gravidanza e puerperio.

Nell'immediato dopoguerra, gestanti e puerpere non dovevano svolgere lavori pesanti o insalubri. Venivano tutelati anche i minori di quattordici anni, mentre i minori di sedici potevano svolgere soltanto i lavori leggeri. Inoltre, era vietato il lavoro notturno alle donne. Bisogna, però, precisare che, durante il fascismo, le poche norme di leggi in materia di lavoro non venivano applicate e quindi i lavoratori erano alla completa mercè dei datori di lavoro.

Con la caduta del fascismo e l'instaurazione della Repubblica, le cose cambiarono in tutta Italia e, anche a Sambiase. I lavoratori cominciarono ad avere un trattamento migliore da parte dei padroni, sia dal punto di vista economico che da quello assistenziale e assicurativo.

Il verbo «scioperare» era praticamente sconosciuto; ignorata la solidarietà concreta col più debole; inchini e «scappellate», invece, ai «Don», dei quali “ci si gloriava di essere al loro servizio”. La conduzione dell'azienda era diretta. Gerarchia nel personale, ma tutti alle dipendenze del «padrone».
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Tutti i salariati, uomini e donne, se chiamati dovevano prestare il loro servizio per il «Palazzo» e per i «Signori». Personaggio di rilievo è il fattore. È l'uomo di fiducia. Fa le veci del padrone negli affari ordinari, esige, paga, annota, ha sempre il calendario dei lavori, dei mercati, tiene aggiornata la mappa dei salariati e le retribuzioni in natura (grano, olio, sale, ecc.)

I salariati erano tutti maschi e dal lavoro svolto prendevano la qualifica: cocchiere, vaccaro, porcaro, mandriano, ecc.

I mezzi tecnici della lavorazione erano quelli che erano: zappe, zappette, picconi, pale, accette (tutti strumenti azionati dai muscoli dell'uomo); màngani, cardi, trivelle azionati dai muscoli delle donne; aratri di legno con o senza vomere di ferro tirati da flemmatici buoi e direzionati dai bifolchi in un andirivieni tra i solchi dalla mattina alla sera.

La produzione non era tutta destinata al commercio: parte era destinata alla semina, parte alle integrazioni salariali e parte al consumo corrente.
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Dalla pianura ancora paludosa e malarica affluivano nei magazzini il grano, la segale, il granturco. La paglia veniva in parte usata con le foglie delle pannocchie, per riempire un rudimentale materasso piuttosto grande (saccuni) per il letto; veniva poi adibita come pasto degli animali e come strame nelle stalle, reciclato, a sua volta, come concime, caricato e scaricato dai foresi sui carri con i tridenti di legno, raramente di ferro.

A maggio si tagliava il fieno. A settembre si cavavano le patate e si provvedeva alla raccolta delle mandorle, «si manganava» il lino. Il lino veniva seminato in un terreno piuttosto fresco. Aveva più o meno, la stessa altezza del grano, ma non si aspettava che producesse i semi, se non per seminarlo di nuovo l'anno dopo.

Si mieteva, invece, quando la pianta produceva un caratteristico fiore azzurrognolo. Veniva, poi, legato in mazzi, «gregni», e messo al sole.

Quando era essiccato, si portava alla macerazione, cioè si teneva in ammollo nell'acqua corrente dei torrenti affinché la fibra legnosa si sfilacciasse e si prestasse alla lavorazione. Nell'acqua restava una ventina di giorni, poi si procedeva alla battitura, con un mattarello di legno appositamente creato. Poi si manganava; la stoppa che veniva ricavata non era pura perché era impossibile fare un lavoro perfetto, ma si procedeva lo stesso alla filatura.

laboraC'erano mani molto esperte per fare ciò. Si ricordano alcune vecchiette che filavano il lino con mezzi e attrezzi artigianali dell'epoca (cunocchia e fusu), dalla mattina alla sera e, sembrava non si stancassero mai. Il lino, una volta filato poteva essere tessuto con i telai domestici e trasformato così, in bellissime lenzuola, tovaglie, asciugamani, anche se grezze e ruvide all'inizio, con l'uso venivano acquistando sempre più candore e morbidezza.

Da tenere presente che le lenzuola venivano lavate con sapone di casa o con la liscivia e non con i detersivi profumati e leggeri di cui disponiamo oggi.

Il processo di lavorazione del lino era molto faticoso e mal retribuito, se si pensa che per ogni manganatrice c'erano solo cinquanta centesimi a giornata. Per la raccolta delle ulive, si formavano le «squadre» delle raccoglitrici con una «caposquadra» e il «guardiano».
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La prima «scarma» (caduta delle olive) tra la fine di agosto e i primi di settembre. In seguito «le squadre» si spostavano da un fondo all'altro con cadenze regolate dall'annata e dai venti. A nessuna delle raccoglitrici era permesso di scostarsi dall’«anta» per raccogliere dove il frutto era più abbondante.

Le più provette raccoglievano «a due mani», le ragazze infreddolite e tossicchiando, accodate alla mamma le riempivano il paniere a pugnelli perché nei giorni della retribuzione potesse essere assegnata una razione più consistente di olio.

La razione raramente corrispondeva al quantitativo che ogni raccoglitrice, per proprio conto, aveva inciso sulla verga verde e neanche la qualità era di quella destinata alla mensa del padrone.

Durante la raccolta l'olio era posto in mercato a due lire, a prezzo differenziato «l'olio nero», quello scaldato e la «morga», scarto dello scarto che serviva per fare il sapone.

Non si trascuravano i «barchi» (agrumeti), remunerativi per il prodotto pregiato (le arance) molto richiesto sui mercati. Voce attiva e consistente la foglia di gelso bianco per il baco, allevato in molte famiglie, tra maggio e giugno per uso familiare e per il commercio.

gbm29Il mese di maggio era dedicato alla produzione del baco da seta. Era un lavoro svolto prevalentemente da donne e bambini, perché leggero. Essi, infatti, quasi ogni giorno andavano a raccogliere «u'pampinu», cioè foglie di gelso, che costituivano il cibo prediletto dal «siricu», il baco da seta.

Verso metà giugno il lavoro veniva premiato con i bozzoli. Purtroppo, anche allora, i bozzoli venivano venduti ai tramezzieri, che non si contentavano dell'onesto guadagno. Alcuni, molto pochi, estraevano la seta che veniva tessuta nei telai nostrani. Dagli acquitrini, nidi di zanzare, i redditi della verga per farne cestelli, «crivi», e «vuda» (sala) «laganu», richiesta dai «seggiari» (sediari) e «crivari»(cestaioli).

gbm45Gli allevamenti di bestiame costituirono attività concomitante all'attività più propriamente agricola. Alcuni allevamenti erano per accrescere il volume del commercio, altri come sussidio immediato e necessario alle forze fisiche dell'uomo.
A parte gli animali da cortile, il cui mantenimento era contenuto nei livelli più bassi, le attenzioni si concentravano nell'ordine sui bovini, ovini, equini, suini.In un paese agricolo come Sambiase, l'asino era, tra i mezzi di trasporto, il più diffuso e necessario, la cui bardatura di lavoro era costituita dal «basto».
«I ‘mbastari» hanno ormai cambiato mestiere, perché per i pochi asini rimasti, il basto lo si comprava a Nicastro nei mercati agricoli e di bestiame. Ancora oggi, alcune persone vengono etichettate col nome di «mbastari», che è un appellativo niente affatto dispregiativo. Attorno all'attività agricola fiori vano altre attività come quelle del maniscalco, del falegname, dello stagnino, del ciabattino, dell'aggiusta ombrelli (umbrillaru), dell'aggiusta sedie (seggiaru), del merciaiolo, ecc.
gcapo2Il maniscalco trovava molto lavoro a Sambiase per il fatto che, essendo un paese agricolo, c'erano molti muli, asini e cavalli, che avevano spesso bisogno di essere «ferrati», cioè di avere i ferri nuovi sotto gli zoccoli.
Il maniscalco, dapprima, toglieva all'animale il ferro consumato, poi, puliva l'unghia, bruciava la superficie con il ferro rovente e, infine, inchiodava il ferro sullo zoccolo con i chiodi .

Il ciabattino era colui che aggiustava e faceva le scarpe (infatti, si chiamava «u scarparu»). Egli aveva una piccola bottega, in cui lavorava da mattina a sera, rattoppando il cuoio molto spesso,o mettendo sui fondi chiodi (detti «tacci») e ferri per evitare che le scarpe si consumassero troppo.
gcapoL'aggiusta ombrelli (umbrillaru) svolgeva la sua attività girando per le vie del paese e invitando le gente a farsi riparare l'ombrello. Alla fine del lavoro, il prezzo era in denaro, oppure in alimenti come fagioli, grano, vino, olio, ecc.
L'aggiusta sedie (seggiaru) girava, anch'egli, per le vie del paese, chiedendo alla gente sedie da aggiustare a domicilio.
Il merciaiolo girava per il paese con una cassetta di legno, legata al collo per mezzo di una corda. Nella cassetta erano aghi, ditali, fili, forbici, pettini, «pettinisse», «spatini» (usati dalle donne per fermare i capelli), ecc. Tutte queste cose erano utili alla casa, ma, principalmente, alla massaia.
Nelle classi sociali, gli artigiani occupavano il gradino superiore del bracciantato agricolo e quello inferiore del ceto impiegatizio.

La vocazione artigianale nasceva, si formava, veniva esercitata prevalentemente in paese, per gli abitanti del luogo. L'uomo artigiano «si armava 'a putiga» (la bottega); la donna artigiana (sarta, per lo più) lavorava in casa, la tessitrice lavorava al telaio.

Botteghe e telai erano situati negli seminterrati umidi, scarsamente arieggiati con pavimenti in terra battuta. Ambienti adatti per la tubercolosi, i reumatismi, la cecità.
gcapo54 Le botteghe erano frequentate da apprendisti e ragazzi perché non andassero liberi per le strade. Le ragazze, invece, frequentavano «a maistra» (sarta) e tutte avevano il loro lavoro. In questi ambienti vi era anche il momento della preghiera e del canto.

Gli apprendisti non venivano retribuiti; i ragazzi erano tenuti gratuitamente e davano, all'occorrenza una mano alla «maistra» o al «summastru» nei lavori agricoli: raccolta delle ulive, dell'uva, dei fichi, delle ghiande e così via.
gcapo60Nei mestieri vi era anche una certa gerarchia: capomastro, mastro, apprendisti con compiti di scarsa rilevanza, discepoli col compito di servire i mastri. Al capo spettava, per rispetto, l'appellativo di «signor maestro» (summastru), senza l'aggiunta del nome; ai maestri, l'appellativo di «mastru» seguito dal nome (Mastru Cicciu), gli inservienti si appellavano semplicemente col nome.
Molti mestieri, col mutare dei tempi, non sono più esercitati, altri, per sopravvivere, dovettero aggiornarsi. Quando qualche artigiano “chiudeva gli occhi”, anche la loro bottega» chiuderà i battenti e gli eredi, tutti professionisti o impiegati, faranno presto a disfarsi degli strumenti di quel mestiere, che, esercitato con passione e costanza, diede loro la possibilità di ascendere altri gradini nella vita sociale.

Forse eviteranno, per pudore, di raccordare la loro posizione sociale al mestiere dei genitori.
Alcuni mestieri sono scomparsi, altri non hanno vita lunga perché non vi è richiesta del prodotto e perché, esercitati alla maniera primitiva, sono scarsamente redditizi.

È scomparsa anche la figura artigianale del setacciaio ('u crivaru). I crivelli tanto usati dalle contadine per ripulire il frumento e i cereali. La materia prima abbondava nei pantani della piana di S.Eufemia. I crivelli di filo di ferro e della plastica ne segnarono la morte e la fine della figura del «crivaru».

Le poche attività artigianali locali non potevano soddisfare tutte le esigenze delle famiglie. Un contributo lo davano i mestieri dei «Girovaghi»: gli affila-forbici e coltelli, i setacciari, spurtunari, varrilari, siggiari.
gbm14Questi i mestieri scomparsi. I mestieri seguenti, invece, sono in fase di estinzione: sta scomparendo la figura della «Massara», cioè la tessitrice per conto terzi, aiutata da un certo numero di discepole impegnate a tessersi il corredo. Le massare erano poche, le tessitrici in proprio molte.

La massara lavora e insegna a lavorare il lino, prodotto in abbondanza. Tesse e insegna a tessere la seta di bozzolo, per uso familiare. Il telaio della «massara» ha trovato sistemazione nel pianterreno della casa (catuaiu). All«anìmulu» (arcolaio) e all'incannatoio (fusufierru) si danno il cambio le adolescenti sia per preparare i cannoli per l'orditrice, che le cannelle per le navette. Si ottengono così sacchi, sacconi, tovaglie, lenzuola, coperte, camicie, ecc.
La preziosità dei tessuti è ancora, fortunatamente, largamente testimoniata, ma non ben custodita, né sufficientemente apprezzata.
Smessa la coltivazione del lino sono scomparse le figure delle manganatrici, delle cardatrici, delle filatrici: Si è impoverito il vocabolario di molte voci: fhusu, fusufhierru, matassaru, cardu, anìmulu, ligatura, trama, stame, 'ntrusciu, incannare e altri ancora.

Con i nomi sono in via di estinzione gli oggetti corrispondenti.
Il sarto (custuliari), il calzolaio (scarparu), il falegname, il muratore hanno lasciato una tradizione.

Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale l'agricoltura subì trasformazioni radicali sia in pianura che in collina. Le distese di grano furono soppiantate dagli ortofrutticoli destinati ai mercati interni e internazionali, aumentarono i vigneti.
gcapo8C'erano, invece, parecchi frantoi, che provvedevano a macinare le olive con delle pietre enormi di forma circolare, che giravano sempre su se stesse, e che per fare sgorgare l'olio utilizzavano delle presse cilindriche.

Il lavoro richiedeva l'aiuto indispensabile di molti operai e l'utilizzazione di acqua in abbondanza. Questa è la ragione principale per cui i frantoi sorgevano lungo i corsi d'acqua e, soprattutto, lungo il torrente Cantagalli i frantoi, «i trappiti» di Cristaudo, Fulfaro, Mauro, Sirianni e Maione; sul torrente Zupello e Bagni i frantoi di Gregorace, De Medici e Vescio. Anche i mulini sorgevano lungo i corsi d'acqua, dovendo sfruttare l'energia dell'acqua per macinare il grano, il granturco, le castagne, ecc.

Come per i frantoi, la macina era costituita da enormi pietre granitiche, ed erano azionati da uomini o sfruttavano l'energia dell'acqua. Dalla macina si ricavava una farina integrale, che doveva essere setacciata, prima di essere adoperata.

Dal setaccio cadeva la parte migliore che serviva a fare il pane, mentre quello che vi rimaneva, era la crusca, che veniva data in pasto agli animali.
casapino1Lungo il Cantagalli sorgevano i mulini di Notaro, La Scala, Pino, Isabella, Mascaro e Sirianni. Anche i mulini ad acqua, con il passare degli anni, sono stati sostituiti da impianti elettrici, più efficienti ed economici di quelli antichi. Adesso sono, addirittura, completamente chiusi o inattivi, in quanto il pane non si fa più in casa. Ma quanta differenza,tra il sapore del pane d'oggi e quello di una volta.

La prepotenza industriale ha imposto i suoi prodotti, gusti, stili.

Si deve, però, concludere che nel tessuto sociale calabrese la produzione artigianale non si è mai troppo specializzata, nè imposta sui mercati extraregionali a causa dello scarso sviluppo delle città, dove, invece, nasceva come grossa attività lavorativa urbana in alternativa a quella contadina della campagna.

Essa è rimasta sempre attaccata all'agricoltura e tale durò fino all'ultimo decennio, in cui ha cominciato a subire i colpi mortali dell'industrializzazione.

 

 


1) Alcune notizie sono state tratte da: "Sambiase casa mia", parte quarta "Vita dei miei antenati", p95/118 a cura della Scuola Media Statale - G. Nicotera - Lamezia Terme Sambiase, Calabria Letteraria Editrice Soveria Mannelli (Cz). Anno 1988.

 

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