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Borrello Enrico

eborrello Enrico Borrello: "Profilo Biografico e Bibliografico"

di Urbano Giorgio Caporale

Il maestro Enrico Borrello (è nato a Sambiase nel 1896 e vi morì nel 1968) il primo unico vero maestro di vita e di pensiero che rivelò me a me stesso, valorizzando ogni mia pur nascosta attitudine, aprendomi alla gioia del conoscere e del fare, sollevandomi all'ebbrezza dell'autorealizzazione. Di lui non ho un solo ricordo sgradevole, ma l'immagine consolante e viva ancor oggi di un invitante e cordiale sorriso; di una vivacità giovanile che sapeva farne in certi momenti un ragazzo tra i ragazzi, felice di mescolarsi con noi e di vivere la nostra gioia di vivere; di una cordialità e facilità di comunicazione che trasformava la fatica dell'apprendere in un'entusiasmante conquista di sapere.

Enrico Borrello era il nuovo rispetto al vecchio rappresentato dal mio precedente maestro, nella cui opera educativa si esprimevano gli aspetti più negativi della pedagogia positivistica di cui sopravvivevano soltanto, come strumenti di tortura: nozionismo, verbalismo, moralismo, disciplinarismo, spogliati di quei pur sani principi di formazione civica che avevano ispirato il Gabelli. Il nuovo di Borrello era l'attivismo, sostenuto da una non comune formazione teorica oltre che da una profonda e sincera convinzione personale. Erano gli anni della riforma Gentile o meglio, della scuola creativa di Lombardo Radice, uno dei più grandi educatori e riformatori del nostro paese, che volle e seppe imprimere alla scuola italiana una svolta decisiva in senso pucrocentrico e liberatorio. Con lui ebbe inizio il processo di sprovincializzazione del pensiero pedagogico italiano, attardato su finalità e strumenti operativi ottocenteschi di ispirazione postunitaria contenuta entro i limiti di un moralismo di maniera, ricalcato su modelli di un mondo deamicisiano esangue e paternalistico; laddove la realtà italiana del primo dopoguerra presentava ben altri problemi di sviluppo democratico e civile, anche se le linee di tale sviluppo, tracciate dal Lombardo Radice con modernità di propositi e di intenti, subirono deviazioni e storture con la successiva fascistizzazione della scuola. Con lui la scuola cessava di essere preparazione alla vita, fase durante la quale si mortificavano tutte le energie creative dell'infanzia, per divenire vita essa stessa, una vita in cui unico attore e protagonista della vita scolastica è il fanciullo con tutta la sua carica di sentimenti e di bisogni, con tutta la sua volontà di fare e di creare, per cui ogni occasione di studio o di lavoro diventa momento irripetibile di crescita intellettuale morale e sociale; una scuola in cui l'apprendere nasce da un interiore bisogno ed è il risultato di un fare nel quale siano coinvolte e rese operanti tutte le attitudini del ragazzo, non escluse quelle manuali pratiche e ludiche; una scuola in cui il rapporto maestro-scolaro non è più di supina subordinazione di questo che non sa a quello che sa, ma scolaro e maestro si pongono su di un piano dialettico di reciproco rispetto e di reciproco stimolo per avventurarsi insieme e insieme pervenire alla formazione di un compiuto sapere, di una più alta coscienza morale. Ebbene, in Enrico Borrello la passione educativa, che portava nel sangue per eredità familiare e per autentica vocazione all'infanzia, si sposava felicemente a un entusiasmo intellettuale per i nuovi orientamenti pedagogici e didattici del Lombardo Radice, riproposti non con meccanica riproduzione, ma con spirito creativo e innovatore di volta in volta adattati alla reale situazione ambientale e scolastica. Egli anticipava, infatti, quella concezione del ruolo del maestro come operatore sociale, oggi rivendicata dalle forze sociali più avanzate, vivendo in prima persona la vita dell'ambiente sociale entro il quale opera la scuola. Ricordando gli anni in cui fu maestro nella contrada montana di S. Maria, così scriveva in «Cronaca di Calabria» (135-1967) «...Ero tutto a S. Maria . Là facevo il maestro a 23 ragazzi, facevo lo scrivano pubblico e gratuito, che l'analfabetismo segnava allora il 95%, e i giovani erano soldati lontani e aspettavano con ansia notizie di casa... E facevo anche il medico, curando prudentemente la febbre con il chinino, e non mi sbagliavo quasi mai perché la borgatella era umidissima, e i reumatismi entravano in ogni casa». In quello stesso articolo ricordava come egli stesso rischiò di perdersi nel Reventino durante una tormenta di neve per non venir meno al dovere di essere puntualmente a scuola nel giorno e nell'ora stabilita. Per lui il dovere, lo scrupolo professionale, la dignità venivano prima di ogni altra considerazione, secondo una rigida concezione morale, che fa del maestro, specialmente nel Sud, un esemplare di tutte le virtù che si richiedono al cittadino. La sua lezione non aveva niente di prefabbricato né di improvvisato: essa nasceva come momento creativo irripetibile, giorno per giorno, sulla base degli interessi reali di noi ragazzi e a continuo contatto con la realtà naturale e sociale che ci circondava, onde scoprirne forme e rapporti. Via i vieti temi di invenzione per far posto alla composizione illustrata su tema libero o al diario personale, che dessero libero sfogo all'espressione del nostro mondo interiore, ai pensieri e ai sentimenti che uomini e cose realmente suscitavano in noi. Via gli orrendi esercizi grammaticali con pagine e pagine di analisi o di verbi da coniugare per iscritto, per la libera conversazione partendo dall'uso del dialetto. Egli scoprì il valore del bilinguismo per cui lo studio del dialetto trovava pari dignità con quello dell'italiano, sia per le sue doti di espressività e di perfezionamento delle capacità di comunicazione verbale, sia per il patrimonio di cultura popolare e regionale che esso rappresenta per le nuove generazioni. La nostra scuola era un laboratorio, con annesso giardino da lui voluto e da noi coltivato, con allevamento anche di qualche piccolo animale domestico, dove le conoscenze scientifiche erano il risultato di esperienze concrete in relazione soprattutto alla richiesta di cultura che veniva dall'ambiente sociale e in risposta al nostro bisogno di conoscere. Niente problemi sui pizzicagnoli che vendono prodotti allora a noi sconosciuti come il prosciutto, magari con equivalenze da miriagrammi a decigrammi, ma proposte di quesiti attinenti alla nostra esperienza di figli di operai e di contadini sul mondo del lavoro di cui eravamo allora parte integrante come apprendisti ed aiutanti. Le conoscenze geografiche venivano, per così dire, costruite con plastici della zona manipolati da noi: le nostre mani erano sporche di creta, ma si viveva in un'atmosfera di gioiose conquiste; le campagne circostanti erano il luogo più frequente delle nostre esplorazioni, e le giornate, con lui, volavano rapide in un felice alternarsi di occupazioni intellettuali e di libere attività creative. Ciò che più mi colpisce, oggi, a distanza di tanto tempo, e che come educatore gli invidio: la sua presenza discreta durante la giornata scolastica, la sua eccezionale dote nel saper animare la classe senza farci avvertire la ingombrante e talora ossessiva azione didattica che caratterizzava i precedenti maestri: egli era tra noi, eppure ci sentivamo liberi; anche nel parlare era come una voce che fluisse spontanea dalla nostra coscienza in perfetta sincronia con le nostre motivazioni psichiche e mentali. Eppure, tanta apparente semplicità nascondeva una preparazione che, come ho già detto, oltrepassava i limiti della informazione scolastica per approdare ad una vera e propria dottrina coerente e meditata, sostenuta da assidue letture e rinnovata da continue verifiche in campo didattico; strumento originale, pur nella fedeltà ai princìpi del suo grande maestro Lombardo Radice, di inventività pedagogico-didattica in cui trovavano felice soluzione i complessi e difficili problemi della scuola del tempo. Infaticabile organizzatore culturale, seppe, con sensibilità, cogliere i vari sintomi di crescita morale e civile del nostro paese adoperandosi per l'educazione degli adulti con chiare e precise risposte alla richiesta di alfabetizzazione e di acculturazione delle nostre genti; organizzando biblioteche scolastiche e spettacoli ricreativi con proiezioni filmiche, che erano, allora, per noi, una grande scoperta data la povertà dell'ambiente; predisponendo interventi del patronato scolastico in favore dei bambini poveri, che allora erano la maggioranza della popolazione scolastica. Ma i suoi interessi andavano oltre l'ambito scolastico allargandosi ai problemi più acuti del nostro paese, specialmente dopo che la Resistenza ebbe restituito all'Italia le sue libertà. Attraverso una puntigliosa e appassionata attività giornalistica, divenne l'interprete degli uomini del paese, denunciandone giornalmente bisogni e richieste, facendosi promotore di concrete realizzazioni in campo sociale: ne sono viva testimonianza la realizzazione del secondo ufficio postale nel rione Stradella da lui voluto con caparbia insistenza e l'abbozzo di alcune strade di montagna, memore forse dei disagi che egli stesso aveva vissuto quando si recava a piedi a S. Maria. Amministratori comunali e uomini politici avevano in lui un pungolo ad agire in modo concreto per il bene del paese e, non eli rado, un termine di orientamento politico, anche se nel quadro di una visione moderato-riformatrice dei problemi sociali. Di questo suo impegno sociale e culturale insieme, in quanto per lui cultura implicava impegno civile e viceversa, fa fede la sua lunga e articolata collaborazione a giornali e riviste (come Al Mattino», «Il Giornale d'Italia», prima della guerra; e poi «II Tempo», «Gazzettino calabrese», «Procellaria», «Historica», «Brutium», «Cronaca di Calabria», «Rai» e, soprattutto, «Calabria Letteraria», aperta a interessi di carattere storico, letterario, folkloristico, politico, sociale. Tra i tanti, voglio ricordare alcuni temi per se stessi indicativi della larghezza e complessità dei suoi interessi: «L'Abbazia di S. Eufemia», «Terina e Lametia», Al castello di Nicastro», «Le Aquae Angae», «La rivoluzione calabrese del 1848», «D. Ponzio e T. Campanella>,, «La sirena Ligea», «Il generale Serrao», «La mensa ponderaria di Nicastro», Al santuario di Paola», «Pizzo», «La vendemmia a Sambiase», «II sentimento religioso nel folklore calabrese», «Pellegrinaggio al Santuario di Visora», Al museo nazionale di Reggio Calabria». L'amore per il suo paese lo spingeva a ricostruirne le origini tassello per tassello, casale per rasale, rudere dopo rudere, sfogliando documenti inediti, interrogando reliquie del lontano passato, ricercando e vagliando testimonianze antiche e recenti. Ci informa, così, che vecchi e solitari ruderi, soffocati tra rovi e sterpaglie e completamente ignorati anche dalle persone più istruite del paese, nascondono i fasti dell'antica Abbazia di S. Eufemia, fondata niente meno che da Roberto il Guiscardo nel 1062, dotata «di tutte le terre della piana, dalle rive del mare alle opposte pendici montuose, compresi villaggi e case coloniche, e perfino parte della città di Nicastro col castello, che, molto più tardi, l'imperatore Federico II... si adoperò a riavere, in cambio della terra di Nocera col suo porto». Così, da uno studio pubblicato su «Calabria Letteraria» in vari numeri dell'annata 1959-60, siamo informati che intorno alle contrade che dalla terrazza di S. Eufemia degradano verso Cannistraro, Cirzito, Jardino, Piscirò, dove sono state rinvenute «...numerose tombe di fattura greca, e coppe, lucerne, orcioli, monete soprattutto greche e romane e di Agatocle con fulmine alato, doveva sorgere l'antica città greca di Terina», surrogando l'affermazione con una precisa argomentazione storica basata su un'analisi attenta delle monete e di un'hidria ivi rinvenute. Da curioso delle antichità storiche si fece ricercatore e custode delle preziose reliquie che dapprima il caso e poi la volontà dello studioso restituivano alla luce del presente dalla notte dei tempi. Il riconoscimento ufficiale di questa preziosa opera di ricercatore e di storico gli venne con la nomina a Ispettore onorario alle Antichità e Belle Arti per la zona lametina, dove spesso faceva da guida ai sovrintendenti o alle persone interessate alla ricerca archeologica e storica. Frutto di questa sua attività, il recupero di pregevole materiale archeologico tra cui monete di argento e una grande bidria, conservate nel museo di Reggio Cal.; così come Sambiase conserva preziosi cimeli del passato, che per indifferenza ed incuria sarebbero andati perduti, ove non fosse intervenuto il suo puntiglioso interessamento. Ma ciò che per Sambiase rappresenta veramente un avvenimento storico, è la pubblicazione avvenuta nel 1948 del suo volume: «Sambiase - ricerche per la storia della città e del suo territorio». Fu per noi giovani un'autentica rivelazione: un oscuro paese di contadini senza tradizioni, improvvisamente si riconosceva riscoprendo le sue origini lontane in quei ruderi, in quelle chiese, in quelle contrade che gli erano stati finora indifferenti e muti e che ora si rivelavano carichi di storia passata e recente; Sambiase usciva dall'anonimato, e luoghi e cose aprivano i loro segreti ai nostri occhi incantati; scoprimmo nella storia risorgimentale pagine gloriose di sacrificio e di eroismo scritte dai nostri concittadini; in virtù di quel libro si andava compiendo tutto un processo di identificazione con un passato che diveniva il nostro présente. Chiunque oggi voglia riprendere uno studio sulla nostra città, ha la strada spianata dal materiale, prezioso per qualità e quantità, raccolto da Enrico Borrello in lunghi anni di pazienti e minuziose ricerche, da certi punti fermi che egli ha stabilito circa il corso degli eventi; dalla individuazione di alcuni dati di fondo sull'identificazione di luoghi e sull'interpretazione di documenti storici. L'essere stato per 44 anni maestro di vita per tante generazioni con la felicità creativa e la profonda umanità di cui ho detto dianzi, attività benemerita, anch'essa riconosciuta ufficialmente con l'attribuzione della Medaglia d'oro della P.I. con decreto presidenziale; e l'aver fatto ritrovare al suo paese la propria identità storica, sì da meritargli il plauso della cittadinanza attraverso una deliberazione del consiglio comunale, sono già grandi meriti che lo collocano tra i figli più nobili di questa cittadina. Ma egli fu anche narratore garbato dalla fantasia sognante ed aerea: «Ho sempre avuto un debole per i viaggi... sulla carta, e mi sono sempre appassionato fin da ragazzo ai libri avventurosi, di viaggi in terre lontane, di usi e costumi strani, di valli con cascate fiabesche, di prati smaltati di fiori strani», come egli stesso confessa nel racconto «Compagni di viaggio»; e dal sentimento puro e tenero come quello di un fanciullo. È tutto un patrimonio di cultura che Borrello riscatta dal silenzio dell'oblio per restituircelo in tutto il suo calore umano e ambientale, esplorato nella policroma varietà di luoghi, situazioni, personaggi; un patrimonio sul quale i giovani delle nuove generazioni troveranno motivi di riflessione per riappropriarsi quell'identità sambiasina e calabrese che consumismo, juke-box, fumetti e televisione hanno disperso in una forma di piatto alienante anonimato. Questo è stato ed è ancora nella nostra memoria Enrico Borrello: un grande educatore dei giovani e un maestro di umanità per tutti; sia ch'egli ricerchi la nostra più genuina identità nelle memorie del passato, sia che riaccenda in fantasiose sequenze di personaggi e di vicende il nostro cuore di sambiasini.
Urbano Giorgio Caporale

Il profilo biografico e bibbliografico di Enrico Borrello è tratto integralmente dal libro “SAMBIASE” Storia della città e del suo territorio dello stesso E. Borrello, da p.11 a p. 20- Ristampa anno 1998 - Temesa Editrice