Pittori

Caporale F.sco Antonio - Rassegna critica

Calabria e mito
Antonio Caporale
fra realtà e immaginazione

(Note critiche di Sicoli - Bignardi - Cosentino - Lepiane e Coltellaro)

 

Il cielo è uno spazio senza confini. Il cielo non è racchiudibile in un quadrato e nemmeno in un rettangolo. Il cielo è senza orizzonti.
Quale modo migliore, dunque, di rappresentare il cielo se non quello delle libere forme, dei contorni infranti, dello spazio antiprospettico? Se il cielo è un modello, la pittura, imitandolo, lo trasgredisce, lo reinventa. E ne muta anche i significati. Può capitare allora che il cielo, luogo virtuale dove l’immaginazione popolare ha sempre posto le creature divine, diventi un’altra cosa, magari il pendant del mondo visibile, un universo parallelo ma per niente sovraterreno. Antonio Caporale attua questa rivoluzione facendo del cielo il riflesso irreale di una terrenità a metà strada fra storia (soprattutto la storia dell’arte) e subcosciente, fra esseri naturali e figure mitologiche. La tensione e la complessità compositiva della pittura di Caporale ricorda quella delle volte barocche, gli spazi del perimetro curvilineo si ispirano palesemente ai grandi riquadri dipinti che si aprono nei soffitti e fra gli stucchi del Seicento, le superfici sagomate alludono a cartigli e stemmi di architetture aristocratiche. Ma non hanno come nel secolo del Grand Goût il compito di sfondare la visione oltre lo spazio racchiuso, quanto piuttosto di schermarla. La scenografia che ne deriva non apre verso l’alto in un misticismo aulico ma in un capriccio edonistico al limite del Kitsch. Caporale costruisce barriere fisiche che si aprono come quinte dipinte, accattivanti ed eccessive nelle decorazioni, vorticose nei ritmi interni. Puttini opulenti, sirene e donne steatopigie, centauri macrosomici volteggiano formando coreografie assieme a festoni, e ornamenti. In un carosello neo-barocco si consuma il bisogno di una spettacolarizzazione della pittura e, con essa, di una teatralizzazione della vita. Le pale, simili alle ante di un altarolo duecentesco, ostentano scene palesemente finte, ridondanti  negli elementi figurativi.
Non ingannano lo spettatore con prospettive apparenti e profondità illusorie ma lo frastornano, e a modo loro, lo coinvolgono in una vertigine percettiva, dentro uno spazio senza orizzonti e senza punti di fuga. Creature profane volteggiano in un cielo che è trascinato a terra: non per niente questi quadro-istallazioni di Caporale sono fatti per essere collocati lungo direttive visuali orizzontali, ad altezza d’uomo; certi piani, poi, possono indifferentemente essere collocati ora con la parte alta in basso ora con quella inferiore in alto; potrebbero ruotare senza per questo cambiare valenza, impostati come sono su struttura centrale e con affollamento di figure che non hanno bisogno di piani di riferimento. Partendo da Pietro da Cortona e dal Baciccia, Antonio Caporale passa per Sandro Chia, l’enfasi barocca si incontra con l’eccedenza del neo-espressionismo lungo il filo rosso di una immaginazione eccitata e propensa all’esagerazione. Alla sacralità barocca però Caporale preferisce la dissacrazione della transavanguardia e se là l’immaginazione seguiva le strade della salvezza ultraterrena, qui è indice dello smarrimento esistenziale.
Nel Seicento fra reatà e immaginazione stava un rapporto dialettico, oggi fra di loro intercorre soltanto un incidente.

Tonino Sicoli

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Una miriade di figure invadono le tele di Antonio Caporale: un repertorio vasto ed eterogeneo di memorie, ora tratte da impianti barocchi, ora sono forme archetipe, ora prelevate dall’immaginario della tradizione orale, dalla cultura della terra. E’ un conti nuo succedersi di eventi che si innestano tra loro, dando vita ad una trama fitta che è poi manifestato desiderio di concedersi al racconto; narrare, assaporando l’ordine del tempo, un’esperienza anche se essa appartiene alla sfera onirica. Le composizioni di Caporale, guardando soprattutto a quelle che sono vere e proprie sculture, elementi plastici (con le sagome lavorate a traforo), al primo impatto sembrano essere il frutto di un ricercato, come elaborazione progettuale, schema compositivo, calibrato negli equilibri formali, nelle corrispondenze, nelle simmetrie. Guardando attentamente le opere di quest’ultimo periodo, parlo cioè dei lavori datati tra il 1985 e l’87 senza perdere di vista i disegni ad inchiostro e pastello, dal ciclo dedicato ai viaggi di Samuel Gulliver dei primi anni Ottanta, agli splendidi pastelli dello scorso anno, osserveremo come il processo di formazioni dell’immagine, segna il filo di un racconto nel quale si aprono innesti ed attraversamenti. Un gioco d’intreccio del racconto che è sul modello de “Le Mille e una notte”, ove le storie si sovrappongono, dando vita ad una sorta di labirinto dell’immaginario. Nell’impianto barocco che, per la presenza di chiari elementi di citazione, come recupero iconografico, sarebbe improprio definirlo neobarocco. Caporale inserisce frammenti tratti dalla cultura locale, dell’imagerie popolare. E’ quella archetipa, dei segni magici, propri dei rituali animistici, spingendo le forme al massimo della stilizzazione, nel tentativo di far sposare il ritmo, la linea decorativa/floreale, fattori che Woffin definì di superficie (proprio delle culture del mondo mediterraneo) e che seguendo la schematizzazione proposta da Worringer, manifestano la conoscenza di una realtà posta come modello, con la profondità, la non chiarezza.
Quest’ultime riflettono le accensioni esistenziali, le tensioni interiori, quel cupo senso che spinge verso l’astrazione che manifesta il travagliato dialogo tra “l’uomo” e “l’Universo”, tipico delle culture nordiche. Questo muoversi su due linee, trova una sua prima definizione, voglio dire in modo compiuto, nella bellissima tela “Dalle dimenticate sponde”, dipinta tra il 1984 e il 1985, nella quale Caporale lascia fluire, liberamente, su un impianto cromatico vivace, ricco di tinte solari, di chiara memoria fauve, dai gialli corposi e coprenti, dai blu che spaziano dal cobalto al manganese, figure che affiorano in superficie come se mosse da un vento. Ai “putti” barocchi, morbidi ed evanescenti, nel pastoso “rosa” dell’incarnato, goffi ed immobili nel tempo, che circondano donne steatopigie, fanno riscontro le immagini di animali, di cacciatori pronti a tendere l’arco, di schematizzate forme di vita preistorica. Nei lavori di questo periodo sono presenti echi “transavanguardistici”, più che altro per quel “vagare” tra gli stili che è indice di quella catartica solitudine nella quale l’ansia e le tensioni si placano lasciando fluire liberamente il racconto. Nelle opere di questi ultimi anni, penso soprattutto a lavori  quali “Segna tempo” o anche il “Reliquario”, dal 1986 l’attenzione di Caporale si sposta sul senso scenico, mettendo a frutto la sua identità di scenografo: sono vere e proprie istallazioni, trionfanti e ludiche, chiassose, pronte ad invadere lo spazio allargando le braccia del racconto, per stringere all’interno di esso lo spettatore.

Massimo Bignardi

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Il colore e il gusto del particolare elaborato, la forma che diventa supporto, sono le caratteristiche essenziali dell’opera di A. Caporale, in cui l’elemento decorativo, concepito in maniera nuova e originale, acquista sempre più importanza provocando la riscoperta e la rivalutazione di forme sotterranee, oniriche, lasciando intravedere rinvii antropologici che partecipano con estrema purezza a giochi di antichi simbolismi. Oltre i contorni dell’immagine in primo piano si librano nell’aria, in uno spazio non matematico, molteplici elementi; dietro il primo piano comincia il regno della fantasia, che porta lo spettatore oltre i limiti della composizione stessa. Le figure acquistano musicalità e corporeità organiche e articolate, adagiate su contrasti di luce ed ambra che giocano su un palcoscenico misterioso ed etereo, dove lo spazio stesso diventa puro ornamento al pari delle figure. Spazio trattato con colori e tonalità ora chiari e leggeri, ora pesanti e ricchi di motivi ornamentali, serpeggianti ed intrecciati, dove le figure si modellano con sensualità curvilinea, contro uno sfondo che ne è l’anima stessa. E sono queste che si proiettano verso l’esterno, avvolgenti e calde, aperte ad influssi antichi e a memorie pulsanti, un grande Luna Park di fantasie estrapolate, buttate fuori, reinventate in una specie di danza liberatoria che diventa il motore d’avvio di un gigantesco ingranaggio, in un oscillare continuo di visioni, ora sottilmente velate, ora dichiaratamente proposte. Gli insoliti perimetri dei supporti, la vasta gamma di tonalità cromatiche, suddividono la superficie in scomparti minori sapientemente equilibrati tra di loro sviluppando un paesaggio in cui si rende vivo ed autonomo lo spazio interno, partecipe di una vivace ritmica compositiva, in cui nulla è superfluo, ma ogni rilievo, ogni sfumatura concorre all’armonia strutturale dell’opera. A. Caporale rievoca con una manualità quasi d’”artigiano” un percorso a ritroso, attingendo con semplice e sapiente naturalezza all’inesauribile fonte della tradizione, intesa come necessario richiamo originario per una più ampia introspezione che non intende sfuggire al moderno ma che ne diventa elemento complementare. Ed ecco che la realtà storica diventa fiaba, leggenda, non distrugge le forme ma le muta, le solleva in uno spirito nuovo, dove l’accentuazione del sentimento e l’esaltazione della fantasia convivono tra loro in stretto rapporto. Il fine che si pone non è lo stato di quiete, ma lo svolgimento che si compie e rinnova in eterni contrasti, che è il senso immanente di ogni storia.

Tiziana Cosentino

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Antonio Francesco Caporale: nell'antro di Vulcano

Entrati nel laboratorio di Antonio Francesco Caporale a Sambiase, in Calabria, si ha subito la sensazione di essere penetrati nella caverna del dio Efesto, protettore delle arti.
Efesto-Vulcano, figlio di Zeus e di Era, era il dio del fuoco, dei fabbri e dell'arte. Era capace di trasformare tutto. L'officina di Efesto si trovava a Lemno, ma tutti i luoghi ove vi erano vulcani e fuoco, appartenevano a lui.
Efesto era brutto, zoppo (non lo è Francesco!), in compagnia di bellissime donne: sposò Afrodite e fu amato da Charis,  rappresentazioni della bellezza personificata, e Aglaia, la più giovane delle tre Cariti (Grazie) così come Francesco è contornato dalla presenza delle sue donne, creature longilinee ed effimere protagoniste delle sue opere (Donne e pesci): il significato è chiaro, dall'arte non può disgiungersi il sorriso della bellezza  e l'incanto della grazia. E' così per Caporale amato dall'Arte in tutte le sue forme. Tutto scintilla e freme nell'attesa di essere toccato dalla mano potente dell'Artista che ha la capacità di trasformare e piegare all'estro della sua ispirazione ogni tipo di materiale: resina, terracotta, multistrato, plexiglas, legno ecc, tutto trasforma in ardore vitale. Possiamo immaginare Caporale mentre passa le sue giornate a martellare sull'incudine come Vulcano, a forgiare dei ed eroi della sua mitica Calabria o di altri luoghi appartenenti comunque all'area mediterranea quali Colapesce, il Centauro, Gioia e Tauro, i cavalli marini, i tritoni, a scolpire colombe e angeli: padrone di ogni elemento, è un inventore al quale nessun miracolo tecnico è impossibile. A Caporale basta la perfezione tecnica delle proprie opere che sanno captare la bellezza palpitante e restituirla in tutta la loro intima essenza: saper fare è l'arte di questo Artista la cui forza è irresistibile.
Sirene, pesci, tonni, sovrapposizioni di cavalli, colombe, antilopi, su, su ancora più su, in questo sostegno-torre-totem intarsiato che s'allunga, che aspira ad ascendere al cielo e alla purezza incontaminata dell'”azzurro” baudeleriano e dove ogni animale possiede e trasmette la sua magica energia senza essere mai soli (si veda il tema dell'Arca).
Caporale ama la natura e il mondo animale sempre presenti nei suoi lavori. Il mondo acquatico dell'Artista è quello della sua terra: le sirene incalzano e seducono Ulisse con modi e toni inconsueti (Nel sogno di Ulisse). E' nella pianura di Lamezia Terme che Ligeia (alla quale è stata dedicata una statua in questa città) si lasciò morire per amore di Ulisse. Le sirene sono l'immagine viva dei pericoli che spesso si incontrano anche in un mare tranquillo, sorridente, invitante ma anche del fascino che esercita l'arte sull'animo dell'uomo.
Prendiamo in esame due temi o metafore ricorrenti nell'arte di Caporale: quello della chiave e quello dell'uccello. La chiave apre e chiude le porte che accedono alla conoscenza, per esempio della natura. Si veda La chiave è nella piramide oppure la statuetta in terracotta dove un uccellino cavalca un altro uccellino mentre la base cela una serratura. Per accedere al mondo naturale. E qui l’Artista non è barocco, come in altre realizzazioni, ma lirico.
La chiave ha anche un ruolo d'iniziazione e di discriminazione, cosa che indica con precisione l'attribuzione delle chiavi del Regno dei Cieli a San Pietro: il potere delle chiavi é quello che permette, oltre che di aprire e chiudere il Cielo, di legare e di slegare, potere effettivamente conferito a San Pietro dal Cristo. Caporale possessore di chiavi è il capo, il padrone, l’iniziatore, colui che detiene il potere di decisione e le responsabilità: in quanto artista ha il privilegio di entrare nella dimora spirituale segreta della creazione.
Gli uccelli rafforzano il simbolismo della chiave in quanto rappresentano le relazioni tra il cielo e la terra: sono la metafora della leggerezza e della liberazione dalla pesantezza terrestre. Come la chiave simboleggiano lo stato spirituale, gli angeli, anch’essi molto presenti nell’arte di Caporale, la sua anima che si libra nell’infinito.

Fausta Genziana Le Piane

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F.A. CAPORALE Lamezia Terme (CZ) – 1954

Dalla recente produzione artistica di F. A. Caporale emerge una dimensione speculativa in cui il processo formativo per giungere all'Opera, si delinea come un percorso tangente tra pittura e scultura, scandendo di fatto tutto un gioco di rimandi semantici e di virtualità oggettuali.
Egli esplora, attraverso un fare quasi alchemico, la struttura, la composizione organica naturale dei differenti materiali di cui accoglie le sottili suggestioni espressive, scavandone la densità  materica alla ricerca di quell'anelito vitale che li attraversa; quell'essenziale, segreto pulsare che ne costituisce il nucleo fecondo; un'estensione in apparenza muta, ma pregna di un “dire” originario che travalica l'esperienza empirica; che scorre tra le stratificazioni della materia lasciando affiorare chi di arcaiche lontananze, di valenze significanti incontaminate cui dare forma.
In effetti, il suo operare percorre territori di immagini la cui storicità si pone come rammmorazione fondante alla quale far risalire le matrici generative della propria sintassi espressiva; matrici figurali aperte a sempre nuovi spostamenti e ridisposizioni testuali.
Ogni atto creativo di Caporale, pur originandosi da una ben individuata dimensione concettuale, presuppone un attento ascolto della vita inferiore della materia; delle continue trasmutazioni che ne caratterizzano l’esistenza, di cui cogliere le nascoste potenzialità compositive, le insondate tensioni formali.
Le sue attuali opere propongono un debordamento dai limiti convenzionali del quadro, dai vincoli oggettuali del supporto pittorico. Esse si aprono allo spazio, lo incorporano, ne assorbono le qualità comunicative peculiari, in un’occupazione testarda attraverso cui si libera il moto rappreso della materia. Possono definirsi “oggetti pittorici” cui sottende un’inconfessata vocazione spaziale, una spazialità, una tridimensionalità scultorea comunque, già “in essere” nella precedente produzione dell’artista.
Nell’impaginazione compositiva dei lavori realizzati in quest’ultimo periodo, la figura umana non scompare, bensì diventa  il fulcro intorno al quale si muove la sua ricognizione estetica; elemento chiave attraverso cui leggere l’estrema tensione spirituale es etica che orienta la sua ricerca pittorica, alla conquista di un equilibrio formale che è altresì equilibrio dell’essere.
La definizione dell’immagine appare rigorosa quanto lineare nell’impianto costruttivo, esaltata da un colore prezioso nell’impasto delle tinte; lieve e rarefatto nella trama della stesura; attutito  e ovattato nelle tonalità; denso di riferimenti simbolici che dilatano la capacità evocativa dei materiali utilizzati, attivandone l’interna energia formativa. Un colore che, nella sua vibrante fisicità, si distribuisce sistematicamente sulle superfici, adeguandosi agli sfasamenti di spessore; riempiendo di sé le rientranze e le sporgenze, i dislivelli di volume che determinano le geometrie strutturali dell’opera; modulando le spinte dinamiche del tessuto pittorico in un serrato, continuo dialogo tra superficie e profondità, tra materia e forma.
E, in questo costante rapporto di reciprocità, di stretta interrelazione, tra gli elementi costitutivi dell’opera, si condensa il valore sostanziale di una “pittura che sà di antico”, in sui si dispiega il pensiero di un tempo senza cronologia; un tempo in cui scintilla il ricordo di un’origine riconoscibile; e in cui,dietro al proliferare di memorie ancestrali, si profila e si annuncia il futuro.

(giugno 1992)

Teodolinda Coltellaro

 

PO-POLI DI TERRA E DI MARE

Popoli, po-poli di terra e di mare: una spaziatura fonetica-sillabica, quasi incidentale, a pre ad una dimensione d'empiricità essenziale; luogo di significazioni possibili; di rappresentazioni che, da sempre racchiuse, assopite, nel nucleo primordiale della parola, possono ora affiorare alla luce, acquistando valore e concretezza d’esistenza. Una semplice spaziatura infrange l’unità semantica della parola, la quale muovendo da sé diventa “altra”, pur restando fondamentalmente eguale a se stessa.
Essa porta già in sé il germe che la scinde, che la determina come dif-ferenza; come distanza “che scava il Medesimo, producendo lo scarto che lo disperde e lo riunisce ai suoi estremi”. (Foucault)
Quindi, quella che si determina allorché si rompe l’identità codificata della parola, è una spaziatura profonda e fondante, ribollente di scorie segniche, di esperienze vissute, macerate dal tempo, estensione breve e intensa; tenue e immenso spazio che narra la storia sedimentate delle culture (di terra, di mare ecc) e nelle cui stratificazioni cronologiche si profilano contorni di un originario verso cui il pensiero costantemente ritorna, avvalorando, in tal atto, un presente orientato e proiettato verso il futuro.
Con la propria comparsa, l’originario segna i punti-limite del divenire, separando “il non più dal non ancora”; divenendo misura della dispersione e della mobilità del tempo, modulando l’aggregarsi e il corrompersi, il farsi e il disfarsi della materia. Quella stessa materia che, nel suo spessore esteso e durevole, si offre al fare dell’artista, il quale con occhio sempre innocente ne esplora la sostanza propria, impastata d’immagini, di valenze significanti da esperire, di parole più antiche d’ogni memoria in cui il positivo e il negativo, la vita e la morte sono polarità contrapposte presenti nello stesso segno; una materia pervasa da un’ansiosa, febbrile dinamicità che traduce l’essenziale processo di incessante trasmutazione, di continua ripetizione che caratterizza l’esistenza, in cui i contrari giungono a coincidere e a identificarsi nella stessa matrice generativa (po-poli di terra e di mare), sostanziando, di fatto, un’identità superiore: quella entro cui condurre la verità antropologica fondamentale dell’uomo, dell’artista.

Luglio 1992

Teodolinda Coltellaro